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Sunday 26 February 2017

UN'INTERVISTA CON ANTONIO MANZINI

Dice cose che sento anch'io...

“La nostra generazione ha fallito. Lasciamo ai giovani un’Italia schifosa”

Il suo Rocco Schiavone spopola sulla Rai, ma un tempo era lui a recitare nelle fiction
di GIULIA ZONCA a Roma
(La Stampa, 26/11/2016)


Le fiction hanno cambiato la vita di Antonio Manzini, lo scrittore che ha inventato il burbero e fascinoso Rocco Schiavone, oggi anche popolare personaggio della nostra tv impersonato da Marco Giallini su Raidue. Ma non è il successo di questa serie che ha determinato la svolta, piuttosto la «fuffa», definizione d’autore, di molte altre che Manzini ha interpretato nel suo passato da attore. Molto prima che Rocco diventasse il titolo del momento.

Prima di scrivere recitava. Perché ha smesso?

«È un’esperienza esaurita, anni fa mi portava stimoli, poi è diventato un mestiere squallido, di poco concetto».

Colpa dei lavori in tv?

«Anche, sì. Troppe schifezze, troppo difficile evitarle. Però c’era anche il teatro che mi esaltava: i lavori con Mario Missiroli, persino una regia di Andrea Camilleri o il buon cinema, come Non è giusto di Antonietta De Lillo. Per fortuna ho titoli di cui andare fiero».

E di cui non andare fiero?

«L’elenco è lungo. Basta pescare nella lista. Ma non è solo colpa della brutta televisione se ho cambiato mestiere, è stato un corto circuito e anche Roma ha dato una mano».

L’ha fatta scappare?

«Già, per fare l’attore dovevo stare lì, da scrittore posso vivere ovunque. Roma è diventata una città sporca, aggressiva, cattiva, cara: non ha più nulla di una capitale europea. È alla fine di un’epoca. In più, mi costringeva a frequentare le cosiddette “persone dell’ambiente” che non voglio proprio vedere».

Tipo quelle che circolano nella «Grande bellezza»?

«No, nel film di Paolo Sorrentino non ho trovato la Roma che vedo io: da tempo non è più un salotto radical chic, è una cloaca».

E in provincia tutto è più bello?

«Sto sempre in Italia, un Paese che ha perso l’etica e ragiona con il codice a barre, ma almeno la vista dalla mia finestra al mattino è fantastica. La provincia non è il paradiso, tanto meno quella di Viterbo (abita a Soriano nel Cimino, ndr), è solo un posto dove l’anima sta più serena».

L’anima di Rocco invece si agita ancora di più lontano da Roma.

«Lui infatti non pensa al futuro. È difficile, cupo, con poche speranze».

Però piace.

«Viene accettato simpaticamente, nessuno vorrebbe essere lui».

Nella fiction Rai ritrova il Rocco che ha creato?


«Sì, attori perfetti, ottima regia. L’essenza del personaggio è rispettata».

Difetti?

«I tagli un po’ rustici. Secondo me mancano situazioni chiave come il sottosegretario che spedisce Rocco ad Aosta, un personaggio schifoso che riflette un pezzo del nostro Paese».

Tolto per censura?

«No, nessuna censura, sono rimaste le canne, le parolacce... Tolto per questioni di tempo, ma per me comunque essenziale».

Se l’Italia la infastidisce così tanto perché non va all’estero?

«Lavoro con la parola, mi sarebbe difficile farlo altrove e poi perché la mia generazione ha fallito: ha ridotto questa povera nazione a un cesso, il minimo che possiamo fare è dare una mano ai più giovani per evitare che scappino. E ovviamente capisco chi lo fa, è un Paese di vecchi e per vecchi».

Per questo ha scritto «Orfani Bianchi», romanzo su una badante moldava?

«Il libro ha avuto tre anni di gestazione, è una storia intima che riflette un problema sociale. Stavolta l’Italia si vede attraverso l’esperienza di chi lascia il proprio figlio per curare anziani altrui».

Le nuove generazioni sono meglio?

«Certo, è già in atto una rivoluzione. A loro serve del tempo e della forza ma sanno che c’è un problema ambientale che noi abbiamo ignorato, se ne fregano della carriera a cui noi abbiamo sacrificato tutto, si chiedono se sia morale entrare in un fast food, si fanno domande. E hanno passione».

Dove l’ha vista, la passione?

«La incrocio spesso. Per esempio sono stato a vedere Palazzo Ducale, a Sassuolo, accompagnato da un preparatissimo ventenne che mi ha fatto scoprire un mondo. Probabilmente lo pagano con due buoni della spesa. Ci vorrà tempo perché la gente così trovi spazio, abbiamo lasciato loro il peggio».

Quando parla così sembra molto Rocco, caustico e definitivo.

«No, io la speranza ce l’ho, solo che tutte le mie paure si sono avverate. Ci siamo ridotti al tifo, al muro contro muro e non puoi scegliere cosa votare al referendum senza essere accusato di stare dalla parte di gente con cui non vorresti essere contato mai. Zero dialogo, solo urla. Bel disastro la politica urlata».

Lei ha scritto anche «Sull’orlo del precipizio», un pamphlet ironico sull’editoria. Come vede la scissione del Salone del libro?

«Torino si era un po’ rovinata con le sue mani, ma la fiera di Rho, che è ben diverso da Milano, mi sembra l’ennesima occasione persa: si potevano unire le città e fare di Milano una sorta di fiera di Francoforte, potente, europea e di Torino un salotto per i lettori. Con un progetto comune. Ma forse ci voleva il Nobel per studiare alternative valide».

A proposito, le canzoni di Bob Dylan sono letteratura?

«È un premio politico e quindi agisce di conseguenza. A Philip Roth non lo daranno mai, ma avrei preferito. Comunque io amo la musica di Dylan anche se detesto il personaggio. Guardatevi su Youtube il backstage di “Usa for Africa[vedi sotto] e indovinate chi è l’unico che sta per i fatti suoi? Un antisociale».

Come Rocco?

«Vivere con Rocco è già difficile, con Bob Dylan mi sa che è peggio. Entrambi di certo non si sopportano».