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Tuesday 27 February 2018

PARLIAMO DI QABBALAH

Albero della Vita, di Gloria Di Simone
Forme della mistica ebraica. Il simbolismo nella Qabbalah
Saggio di Matteo Bianchi *

INTRODUZIONE

Prima di cominciare il mio intervento incentrato sul simbolismo nella qabbalah, mi sembra doveroso soffermarmi sulle scelte metodologiche che ho deciso di fare per preparare questo saggio. Innanzitutto, meditando sul titolo dato a questo incontro, sarebbe più opportuno parlare di simbolismi nella qabbalah, così da poter mettere in evidenza come ad un simbolismo di natura linguistica se ne accompagni uno di natura grafica. Molti dei diagrammi cabbalistici sono ancora manoscritti; questo oblio va ricondotto al legame di Gershom Scholem1, il pioniere dei moderni studi sulla qabbalah, con le correnti idealistiche e romantiche della cultura tedesca. La qabbalah scholemiana ha un’impostazione filosofeggiante, priva di materialità e tendente ad evidenziare il simbolismo di natura linguistica, che ancor oggi regge negli studi sulla mistica ebraica. Non c’è alcun dubbio che i cabbalisti preferirono sviluppare immagini puramente linguistiche e metaforiche, una scelta a favore di una visualità verbale come sostituto di un’arte figurativa troppo vicina alla religione pagana. Nello stesso Sefer ha-Zohar (Il libro dello Splendore), considerato la Bibbia della qabbalah, i diagrammi prendono solo raramente il sopravvento sull’irruenza e la ricchezza delle immagini verbali. Per questo motivo analizzerò soprattutto il simbolismo linguistico, tenendo però ben presente quello grafico, che prenderò ad esempio per esplicitare alcuni concetti di difficile comprensione.

Altra problematica che vorrei sottolineare, in questa breve introduzione, ha un valore puramente storico. Bisogna fare una precisa distinzione terminologica fra misticismo, termine che viene utilizzato impropriamente per designare una determinata forma di pensiero dell’ebraismo, e qabbalah. Il misticismo si riferisce a quelle speculazioni che risalgono agli inizi del III secolo dell’era volgare, epoca nella quale viene tradizionalmente posta la redazione del corpus della Mishnah; mentre la qabbalah è un fenomeno tipicamente medievale, come già era stato rilevato da alcuni eruditi ebrei, come il maestro di Pico della Mirandola, Eliyyah Delmedigo. Nella sua opera Behimath ha-dath (Esame della religione), composta nel 1491, il pensatore ebreo sosteneva  l’impossibilità di attribuire il Sefer ha-Zohar a Shim’on bar Yochay, maestro vissuto nel II secolo e.v. 2, per spostare la sua redazione nel XIII secolo.

Dopo aver introdotto queste due questioni sul simbolismo della qabbalah ed il suo valore storico, vorrei spiegare come ho deciso di dividere il mio intervento. In una prima parte mi concentrerò su una breve analisi dei temi fondamentali della qabbalah, prendendo in considerazioni soprattutto le opere scritte tra il XIII ed il XV secolo3. In questo modo spero di poter far acquisire al lettore strumenti sufficienti per seguire la seconda parte, che sarà dedicata alla riproduzione di alcuni frammenti di testi cabbalistici, così da mostrare direttamente sui testi la natura immaginativa dellespeculazioni cabbalistiche.

LE ORIGINI DELLA QABBALAH

Qabbalah significa letteralmente “ricezione”, e nel suo valore evidenza il concetto di continuità
con il passato. I cabbalisti volevano sottolineare l’antichità della riflessione mistica, che facevano risalire fino alla rivelazione sinaitica. Secondo la concezione ebraica, ogni generazione aveva il compito di recepire dalla precedente gli insegnamenti su cui si fondava la religione ebraica e doveva a sua volta trasmetterli a quella successiva. I mistici scelsero il termine qabbalah per mettere in risalto come anche gli insegnamenti esoterici fossero un patrimonio che il passato affidava a loro al fine di diffonderlo, sebbene in ambiti ristretti, come richiedeva l’astrusità e la difficoltà della materia. Nella Mishnah, nel trattato Hagigah, è sottolineata la pericolosità e l’elitarietà degli studi mistici:
«Non si devono interpretare [i capitoli] riguardanti i rapporti sessuali proibiti davanti a tre persone [o più], né il racconto della Creazione davanti a due persone [o più], né il racconto [che si riferisce] al carro celeste davanti a una sola persona, a meno che non si tratti di un saggio capace di comprendere da solo. Colui che cerca di penetrare i seguenti quattro [misteri: ciò che è al di sopra, ciò che è al di sotto, ciò che è prima e ciò che è dopo], sarebbe meglio per lui se non fosse stato creato»4.
Nel passo mishnico appena citato si fa riferimento a due diversi campi d’indagine mistica, da distinguere dalla speculazione cabbalistica: l’Opera della Creazione (Ma’aseh Bereshit) e l’Opera del Carro (Ma’aseh Merkavah). In questo modo è possibile indicare quali fossero le fonti scritturali dei primi mistici: i primi capitoli della Genesi ed i passi in cui Ezechiele descrive la visione della gloria divina.

Nel VII secolo dell’e.v. con la redazione del Sefer Yetzirah (Il Libro della formazione) vengono presentati, per la prima volta, i simboli che saranno sviluppati dai cabbalisti in età medievale e moderna. Nell’opera si sostiene come siano trentadue le vie che conducono a Dio; il numero si ottiene dalla somma del dieci, che rappresenta il numero delle sefirot, e del ventidue, che sono le lettere dell’alfabeto, immaginate «fissate in una ruota in duecentoventuno porte. La ruota torna avanti e indietro»5:
«Trentadue meravigliosi sentieri di sapienza tracciò Iddio Signore delle schiere, Dio d’Israele, Dio vivente, Dio onnipotente, il sommo e l’eccelso colui il cui nome è Santo (Is 57,15) creò il suo mondo con tre registri: con la scrittura, il computo e il discorso. Dieci sefirot senza determinazione, e ventidue lettere di fondamento: tre madri, sette doppie e dodici semplici…»6.
Il concetto di sefirah diventa fondamentale per delineare un sistema organico della fisionomia segreta del creato. Quindi la qabbalah medievale studia:
Il dinamismo sefirotico.
Le permutazioni alfabetiche. Concetto espresso graficamente nel Sefer Yetzirah con la raffigurazione della ruota delle lettere, che indica l’infinita permutazione alfabetica7.

Nell’immagine cabbalistica Dio crea il mondo combinando tra loro le lettere ebraiche. Ogni lettera racchiude in sé i germi delle cose, non a caso la parola ebraica che indica “parola” e “cosa” è la stessa: rbd (davar). Permutando le lettere il cabbalista diventava protagonista della creazione del mondo.

Il mondo sefirotico
Le sefirot sono concepite come gradi attraverso i quali Dio agisce nel mondo. La divisione dell’energia divina in sefirot dipende dalla natura dell’intelletto umano, che può arrivare alla conoscenza solo gradualmente. Nei testi cabbalistici si sottolinea questo fatto, insistendo nell’affermare che le sefirot sono divise nell’intelletto umano, ma unite in Dio. Infatti, rispetto alla concezione emanazionista del neoplatonismo, le sefirot non sono mediatori del divino, ma attributi che provengono da Dio stesso, che rappresenta la radice. Le sefirot sono dieci in accordo con un
simbolismo numerico precedente al Sefer Yetzirah, già nel Vicino Oriente il numero dieci esprimeva l’idea di completezza. A partire dal XIII secolo le sefirot vennero designate con termini specifici, tratti da un versetto del Primo Libro delle Cronache, nel quale Davide benedice Dio, elencandone gli attributi (29,11)8. I cabbalisti, influenzati dalle speculazioni del Sefer Yetzirah e del Sefer ha-Bahir (Libro del chiarore), teorizzarono un movimento incessante della struttura sefirotica. Questo dinamismo, oltre ad essere stato descritto con splendide immagini verbali, è stato rappresentato graficamente. L’immagine più nota è l’albero sefirotico, presente nel Pardes Rimmonim (Il giardino dei melograni) di Mosè Cordovero, testo redatto nel XVI secolo:

L’albero è diviso in tre assi principali, paralleli fra loro, sui quali sono disposte le sefirot, legate da numerosi canali trasversali, che segnalano gli influssi reciproci e dimostrano come tutto è legato e condizionato. La discesa delle forze celesti avveniva lungo il lato di destra (con chokmah9, chesed10 e nesach11), mentre la risalita percorreva la parte sinistra (con binah12, gevurah13 e hod14). L’asse centrale, sulla quale si allineavano keter15, tif’eret16, yesod17 e malkhut18, è caratterizzata dall’idea di pienezza divina.

La riflessione cabbalistica si basava sul mondo emanazionistico e non su quello dell’essenza divina. I cabbalisti ricorsero alla terminologia della teologia negativa per dimostrare l’assoluta trascendenza ed oscurità di Dio. Yishaq il Cieco indicava Dio con il termine En-Sof, che significa “non finito”, ossia “infinito”:
«La cosa creata non ha la forza di afferrare l’intima allusione del pensiero alla comprensione dell’En sof, giacché ogni contemplazione nella sapienza, a partire dalla comprensione intellettuale, è sottigliezza, allusione del suo pensiero nell’En sof […] Ma com’è questa contemplazione? Devi intuire con sapienza, essere sapiente con intuito, giacché sono essenze nascoste, nelle quali non vi è traccia, non vi è cosa che abbia forza di contemplarle, se non quanto è stato da esse emanato. Com’è la contemplazione che ne ha questa cosa, o l’illuminato che la contempla? Dalle essenze che sono state tracciate si ottiene la contemplazione del loro pensiero, la contemplazione della loro causa nell’En sof»19.
Eleazar da Worms, appartenente al gruppo dei chassidim tedeschi del XIII secolo, nella sua opera Sefer ha-roqeah (Il Libro del profumiere), per dimostrare l’impossibilità di raggiungere Dio accennava alla dottrina del kavod, la “gloria divina”20. Il cabbalista tedesco, accanto al riflesso visibile di Dio, immaginava anche un kavod nascosto: la distinzione tra aspetto celato e aspetto manifesto della divinità diventerà il vero centro della riflessione mistica. Sembrerebbe chiara, a mio avviso, una continuità tra il pensiero antico e la speculazione cabbalistica medievale: come nel pensiero di Filone d’Alessandria, i cabbalisti tentarono di armonizzare due diverse immagini di Dio, quella aristotelica del motore immobile e quella platonica del Dio demiurgo, sostenendo l’invisibilità di Dio e la capacità per l’essere umano di coglierne soltanto le potenze che agiscono nel mondo21. L’essenza divina non viene alterata e le sostante emanate sono il riflesso dello splendore divino. In un frammento dei Sifre ha-‘yiyyun (I Libri della contemplazione) è scritto: «Egli è unito alle sue forze come la fiamma è unita ai suoi colori; le sue forze vengono emanate dalla sua unità come la luce dell’occhio esce dalla scura pupilla. Vengono emanate l’una dall’altra come il profumo dal profumo e come un lume da un lume […] nell’emanato vi è la forza dell’Emanatore, ma questi non subisce alcuna diminuzione».

L’oggetto della speculazione cabbalistica è questa sfera delle emanazioni divine o sefirot, nella quale si dispiega la forza creatrice di Dio, che viene descritta con il linguaggio del simbolo, perché non è accessibile alla percezione diretta dello spirito umano. Il mondo sefirotico diventa la rivelazione di quella radice nascosta rappresentata dall’En Sof, o dal kavod nascosto.

La permutazione delle lettere

Lo spazio simbolico, nel quale i cabbalisti operarono, è quello della Torah, dal momento che non esisteva una letteratura laica nell’ebraismo di età medievale e moderna. Per scoprire i significati nascosti sotto il senso letterale del testo biblico, i maestri ebrei idearono una serie di strumenti esegetici, concentrandosi sui singoli versetti, sulle singole parole ed addirittura sulle singole lettere, trasformando in questo modo la Torah in un corpus atemporale. I cabbalisti erano consapevoli della molteplicità delle possibili interpretazioni delle Scritture22, ed utilizzarono un racconto presente
nella Toseftà per esplicitare tale principio:
«Quattro entrarono nel Pardes: Ben Azzay, Ben Zoma, Acher e Rabbi ‘Aqiva. Uno contemplò e morì. L’altro vide e impazzì, uno contemplò e distrusse le piantagioni [divenne cioè eretico], e ci fu uno che si elevò in pace e discese in pace. Ben Azzay contemplò e morì; a proposito di lui è detto: “Preziosa è la morte dei suoi fedeli agli occhi del Signore” (Salmo 116,15). Ben Zoma vide e impazzì; a proposito di lui la Scrittura dice: “Hai trovato del miele? Mangiane quanto ti abbisogna, altrimenti, rimpinzandoti, lo vomiterai” (Proverbi 25,16). Elisha’ ben Avuyah [cioè Acher] vide e distrusse le piantagioni; a proposito di lui la Scrittura dice: “Che la bocca non si abbandoni a far peccare la tua carne” (Qohélet 5,5). Rabbi ‘Aqiva si è elevato in pace ed è disceso in pace; a proposito di lui è scritto: “Portami con te, corriamo, il re mi ha fatto entrare nelle tue stanze” (Cantico dei Cantici 1,4)»23.
Il termine PaRDeS, che letteralmente significa “giardino recintato”, è formato da quattro lettere che sono le iniziali di altrettante parole:
Peshat: il senso letterale.
Derashah: interpretazione midrashica.
Remez: metodo dell’esegesi filosofica.
Sod: l’esegesi mistica.

Questa parola introduce il senso della quadruplicità del significato della Scrittura simile a quella cristiana, si pensi al pensiero del padre della Chiesa Origine, che aveva teorizzato l’infinita ricchezza del significato del Testo sacro ed aveva affermato che la Scrittura si adattava nel gusto ai bisogni del credente, a seconda del suo perfezionamento interiore: «Affrettiamoci a ricevere la manna celeste: questa manna dà a ciascuno in bocca il sapore che egli vuole. Ascolta infatti il Signore che dice a quelli che vanno da lui: “Avvenga a te secondo la tua fede” (Mt 8,13). Anche per te, se ricevi la parola di Dio, che si predica nella chiesa, con ogni fede e ogni devozione, la parola diverrà tutto ciò che tu desideri»24.

Filone di Alessandria per primo aveva reso la Bibbia oggetto di un processo di allegorizzazione, mediante l’uso del linguaggio filosofico fondato su idee platoniche, aristoteliche e stoiche. Ma rispetto a Filone, i cabbalisti non vedevano nella Torah un esposizione di pensieri di natura filosofica, ma la rappresentazione simbolica del processo segreto della vita divina, che si dispiegava nelle manifestazioni ed emanazioni delle sefirot. Compito del cabbalista era quello di raggiungere il quarto livello dell’interpretazione, ossia quello misterico; per riuscire nel suo intento l’espediente linguistico
principale era quello della permutazione delle lettere dell’alfabeto. L’esegeta di religione ebraica cambiava l’ordine delle lettere per scoprire, dietro il senso letterale, il vero significato del testo. I cabbalisti ritenevano che il passaggio dalle frasi bibliche ai dettagli del mondo materiale fosse avvenuto grazie ad una serie di mutamenti, che avevano trasformato le parole pronunciate da Dio nei nomi concreti delle cose, nelle quali, dunque, brillava ancora una scintilla dell’energia divina. Di seguito propongo alcuni criteri di permutazione:

Gimatreya [gematria]: criterio numerico. Ciascuna lettera indica un numero, così che ogni successione alfabetica può considerarsi equivalente ad una somma aritmetica. Le parole originali venivano così sostituite con termini di uguale valore numerico25.

Notariqon: sistema che individuava nelle lettere che compongono una parola le iniziali di altrettanti termini, come nel caso dell’esegesi della parola PaRDeS.

Permutazione legata alla forma delle consonanti, cioè ciascuna lettera poteva venire scomposta in modo da trovare in essa altre piccole lettere. Ad esempio nella bet b era possibile vedere una dalet d e una waw w, nella ghimel g una yod y ed una zayin z.

L’attenzione per il valore dell’alfabeto introduce la qabbalah estatica, di cui Abraham Abulafia fu il maggiore esponente. Il cabbalista di Saragozza considerava l’alfabeto ebraico come lo strumento privilegiato per la ricerca del divino. Per Abulafia la speculazione sulle sefirot era propedeutica alla parte più nobile della qabbalah, rappresentata dalla mistica del linguaggio. La contemplazione delle lettere veniva intesa come forma di meditazione e di ascesi. Concentrandosi sulle lettere il cabbalista si avviava lungo un cammino di astrazione, che giungeva a comprendere l’essenza spirituale delle lettere. In un frammento del Sefer Hayyei ha-Olam ha-Ba (Libro della vita del mondo futuro) esponeva il principio pratico per accedere all’estasi attraverso la meditazione sulle lettere dell’alfabeto: «Comincia col combinare alcune lettere con tutte le altre, a cambiarle e a farle girare rapidamente finché il tuo cuore si scaldi a forza di farle girare ed esulti, ed esulti anche il loro movimento; e ciò a cui il cervello avrà dato vita combinandole, ti faccia esultare; e quando avrai percepito il tuo cuore ardere veramente a forza di combinare, allora sarai finalmente pronto a ricevere l’influsso generoso»26.

Judah Albotini, un cabbalista vissuto in Palestina nel XV secolo, descrisse lo stato estatico nel suo Sulam ha-Aliyyah (La scala dell’ascensione):
«… Chiuderà gli occhi con forza e contrarrà in modo molto energico e con timore, tremore, sudore, tutto il suo corpo. Le sue ginocchia urteranno l’una contro l’altra e rallenterà la respirazione finché potrà, fino al punto in cui i suoi organi saranno prossimi allo sfinimento, organi interni ed esterni. Farà salire, fisserà, legherà progressivamente la sua anima e il suo pensiero a questi elementi spirituali, per quanto è possibile con le sue forze avvincerla e innalzarla in alto, sopra il mondo delle sfere, verso il mondo degli intelletti separati e verso il mondo superiore nascosto dell’emanazione, fino quasi a divenire a quel punto un intelletto in atto, e a non avere più alcuna sensazione delle cose materiali. Poiché avrà abbandonato la propria sfera umana e sarà entrato allora nella sfera divina, dovrà soltanto parlare e la sua volontà sarà compiuta»27.
Quattro tipi di qabbalah

Oltre alla qabbalah teosofica e quella estatica esisteva una qabbalah pratica o magica, detta qabbalah ma’asit. La convinzione fondamentale della qabbalah ma’asit era che esistesse un rapporto di causa ed effetto tra espressioni verbali, testi scritti, gesti e la realtà concreta dei fatti. Attraverso la magia il cabbalista era convinto di poter intervenire direttamente sulla realtà del mondo. Per la sua affinità con la magia, la qabbalah ma’asit fu considerata inferiore alla speculazione mistica, rappresentata dalla qabbalah teosofica. In una considerazione maggiore rispetto alla magia era tenuta la scienza alchemica, che armonizzava la pratica della trasmutazione dei metalli con l’itinerario di ricerca e di perfezionamento interiore. Così, ad esempio, nel Sefer ha-Zohar i setti tipi di oro menzionati nella tradizione rabbinica divenivano una metafora delle sefirot inferiori ed il trascolorare del metallo prezioso alludeva ai diversi gradi dell’energia divina, sino al culmine della sefirah binah, indicata con il termine “oro superno28.

La riflessione cabbalistica si dedicava anche all’azione quotidiana, in particolare alle preghiere ed al rito, nella convinzione che i gesti dell’uomo potessero influire sul mondo divino, da qui venne introdotta una qabbalah di natura teurgica. Gli atti umani, rispetto alla qabbalah magica, non avevano più un’influenza sulla realtà, ma sul mondo trascendente. La fonte di questo tipo di qabbalah era da ritrovarsi nel neoplatonismo, in particolare Giamblico che considerava fondamentale l’efficacia del rito come attivatore delle forze celesti. Secondo questa tradizione mistica, il compito dei precetti consisteva nell’aprire i canali superni delle sefirot, diffondendo così l’energia divina nel mondo; allo stesso modo una trasgressione avrebbe causato un danno non solo all’uomo, ma alla struttura sefirotica stessa. Fondamentale per questa concezione cabbalistica l’idea di kawwanah, che indica l’intenzione da parte dell’uomo di far raggiungere la massima efficacia ai comandamenti della Torah. Un esempio di qabbalah teurgica si può riscontrare nella Iggeret ha-qodesh (Lettera sulla santità) di Joseph Gigatilla, allievo di Abraham Abulafia29. In quest’opera viene santificato l’atto sessuale fra uomo e donna: l’unione sessuale corrisponde, infatti, alla congiunzione sefirotica tra sefirah malkhut (il regno), il principio femminile, e sefirah tif’eret (la bellezza), il principio maschile. L’unione di un uomo ed una donna, sposati ed in stato di purità per far sì che il loro gesto assuma una portata cosmica, corrispondeva ad un’effettiva unione delle due sefirot:
«Non bisogna affatto pensare che l’unione carnale sia di per sé qualcosa di scabroso e di brutto, anzi, quando avviene nel modo giusto si chiama conoscenza, e non certo a caso, come è detto: Elcana conobbe sua moglie Anna (1Sam 1,19) […] L’uomo è infatti il segreto della sapienza [la sefirah hokmah], mentre la donna è il segreto dell’intelligenza [la sefirah binah]: la congiunzione carnale pura è il segreto della conoscenza [la sefirah da’at]. Questo è il segreto dell’uomo e della donna secondo le vie occulte della qabbalah interiore»30.

Le fonti della qabbalah

Si possono individuare quattro fonti principali che hanno contribuito alla formazione della qabbalah in età medievale:

Il Sefer Yetzirah, opera composta in Terra d’Israele, che introdusse la dottrina dell’aspetto segreto della creazione e la nozione di sefirah, che però aveva ancora un significato numerico-matematico. Solo con il Sefer ha-Bahir viene precisata la definizione di sefirah come potenza e/o emanazione divina.

Il repertorio di visioni celesti proposte nei testi della letteratura degli Hekalot (“palazzi”), da dove la qabbalah eredita alcune immagini, come l’ascesa dell’anima verso tappe conoscitive sempre più elevate e la strutturazione del mondo superno come un’architettura formata da luce. I trattati degli Hekalot, così ricci di immagini, simbolizzavano la natura e diventarono una fonte importante per il simbolismo cabbalistico31.

Il metodo esegetico midrashic32 permise di elaborare la teoria cabbalistica dell’infinito significato delle Scritture33. Lo scopo del midrash era quello di proporre il maggior numero di significati possibili, in accordo con l’insegnamento rabbinico che prescriveva di «girare e rigirare [la Torah], poiché in essa c’è assolutamente tutto».

La letteratura filosofica che, a partire dal IX secolo, prese a diffondersi nella diaspora ebraica, grazie alla traduzione dall’arabo in ebraico dei commenti al corpus aristotelico di Avicenna, Al-Farabi ed Averroé, e delle opere della scuola neoplatonica.

LE NUVOLE DELLA QABBALAH

Questa seconda parte è dedicata al tema delle “nuvole” ed intende mostrare le difficoltà di rappresentare Dio per mezzo della scrittura, essendo vietata ogni rappresentazione antropomorfica, secondo le prescrizioni bibliche di Esodo (20,4) e Deuteronomio (5,8)34: «Non ti farai alcuna scultura [per adorarla] né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra»35.

Ed, ancora, Esodo (33,20): «Non potrai vedere la mia faccia perché nessun uomo può vedermi mentre è in vita»36.

La funzione della lingua cabbalistica è metaforica, visto che mette in evidenza il potere del simbolo e dell’immaginazione. Si assiste nelle opere cabbalistiche ad uno sviluppo sfrenato delle immagini linguistiche, e le metafore contraddistinguono la loro prosa. Questa ricchezza metaforica compensa l’aniconismo, e sembra una scelta del tutto consapevole a favore della visualità verbale, come sostituto di un’arte figurativa troppo vicina al paganesimo37. Questi frammenti provenienti dalla letteratura cabbalistica sono fondamentali per chiarire il processo di metaforizzazione della lingua cabbalistica. Inoltre questi testi mettono in evidenza la potenza “delirante” dell’immaginazione o creatività religiosa, dal momento che non sembrano avere molto a che fare né con l’esegesi né con l’ermeneutica rabbinica dei testi sacri. È però importante tenere ben presente che l’aggettivo delirante non ha alcuna connotazione negativa; ma si riferisce ad una normale funzione della fantasia.

I primi cinque frammenti trattano il simbolismo delle vesti; la nuvola è vista come un paramento per ricevere l’influsso divino, e recupera l’immagine del dinamismo sefirotico.

Primo frammento, Moshe ben Shem Tov de Leòn, Mishkat ha-edut, XII secolo:
«Quando la sefirah Malkhut guida le schiere terrestri si avvolge in un abito e quando guida le schiere celesti si spoglia ed esce dal suo scrigno. E l’abito, quando lo indossa, non lo tiene che per un tempo brevissimo. […] Grazie al mistero dell’abito di cui si veste, i giusti, sulla terra, possono avvicinarsi a lei. Questo è il segreto del versetto che dice: “Mosè s’avanzò verso la nuvola nella quale era Dio” (Esodo 20,21)38. La nuvola è realmente la veste di cui la sefirah si cinge per guidare il mondo. In alto, quando il giusto eterno che si denomina sefirah Yessod, le si avvicina, la sefirah Malkhut si toglie le vesti, essi si uniscono e “diventano una ‘sola cosa’” (Ezechiele 37,17)39. Ma, quando le si avvicina un giusto di questo mondo la sefirah Malkhut si mette l’abito, grazie al quale il giusto può starle vicino. La sefirah non ha alcun potere nel nostro mondo se non attraverso il suo abito. La stessa cosa accade per tutte le cose celesti che da lei procedono […] Ecco un esempio valido per l’esperienza di tutti i popoli: le potenze celesti quando vogliono agire sulle potenze terrestri per farle prosperare e guidarle si manifestano in forma (cioè vestendo un abito) fisica. È quello che dice il versetto ottavo del Salmo 147: “È lui, il Signore, che ricopre il cielo di nuvole, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’ebra sui monti”. Infatti senza copertura o veste, i cieli non possono guidare la terra per prepararla ed aiutarla».
Secondo frammento, Sefer ha Zohar 40, I. 66a:
«Mosè non poté avvicinarsi per contemplare quello che contemplò se non rivestendosi di un’altra veste così com’è detto: “Mosè entrò nella nuvola e salì sulla montagna” (Esodo 24,18)41. La traduzione aramaica precisa: “Mosè entrò nel centro della nuvola”. Egli si rivestì dunque della nuvola come un uomo che si avvolga in un abito. Mosè poté vedere quello che vide quando “avanzò verso la nuvola dove era D-o” (Esodo 20,21)».
Terzo frammento, Sefer ha-Zohar, II. 99a:
«La Shekinah42, avvolta nella “sua” nube, discende verso Mosè e gli fa dono della nuvola, affinché egli possa fare il cammino inverso al suo per salire verso i luoghi divini. Che cosa sia la nuvola di Esodo 24,21 si evince dalle parole del Signore che dice: “Ho posto il mio arcobaleno (qeshet) nella nuvola” (Genesi 9,13)43. E, continua, l’autore del Sefer ha-Zohar, in questo modo “noi abbiamo appreso che questo arcobaleno ha riflesso le sue vesti e le ha date a Mosè. Con queste vesti è salito sulla montagna e grazie a loro ha potuto vedere ciò che ha visto”».
Quarto frammento, Sefer ha-Zohar, II, 197a:
«Si trova la relazione tra l’ingresso di Mosè nella nuvola e quella di Elia nella tempesta (2Re 2,11)44 come rivestimenti per vedere Dio: “Mosè penetrò in seno alla nuvola come un uomo che s’infila in una veste. In questa nuvola egli si avvicinò al fuoco e poté entrare in contatto con D-o. Elia, allo stesso modo, penetrò nella tempesta e se ne rivestì per salire nell’alto dei cieli».
Quinto frammento, Sefer ha-Zohar, II. 229a:
«Sappiamo da Esodo 24,18 che Mosè s’era rivestito della nuvola. Non appena l’ebbe fatto egli salì sulla montagna. Prima di indossare la nuvola non poteva penetrarvi. Allo stesso modo il sommo sacerdote (hoken gadol) non entrava nel santuario senza rivestirsi degli abiti di gloria che gli consentivano di penetrare nel santo».
Gli ultimi tre frammenti introducono il tema della protezione e dell’abbandono; le nuvole, in questo caso, vanno e vengono. La Torah veniva concepita come un organismo e veniva messa in correlazione dai cabbalisti con il corpo mistico di Israele, simbolo esoterico della Shekhinah. La Torah, rappresentata dalla Shekhinah, doveva rivestirsi per essere comprensibile all’uomo, da qui deriva la metafora della nuvola come vestito e dell’oscurità della legge di Dio.

Sesto frammento, Sefer ha-Zohar, III.103a-b:
«Vieni a vedere: finché visse Aronne gli israeliti erano nell’ombra della fede, sotto le nuvole. Dopo la sua morte si allontanò la nuvola che sta alla destra e quando se ne fu andata tutte le altre nuvole si partirono e a tutti sembrava che mancasse qualcosa».
Settimo frammento, Rabbi Bahya ben Asher di Saragozza, Be’ur al ha-Torah (Commentario
al Pentateuco), scritto nel 1291, ma pubblicato nel 1492:
«“Il popolo si tenne a distanza mentre Mosè s’avanzava verso la nuvola là dove era D-o” (Esodo 20,21). Benché tutti gli israeliti avessero meritato di essere profeti allorché ricevettero la santa rivelazione e ascoltarono i dieci comandamenti dalla bocca del santo, che sia benedetto, non si può confrontare la loro percezione a quella di Mosè. La scrittura vuole spiegare che la percezione del popolo era ben lontana da quella che poté avere Mosè penetrando nei luoghi divini. La parola nuvola (‘arafel) che troviamo negli scritti biblici significa, secondo l’interpretazione comune dei commentatori, “oscurità”45. Vedi, per esempio, nel Salmo 97,1-2: “Il Signore regna, esulta tutta la terra, gioiscono le varie lontane regioni. /Nube e caligine gli stanno intorno”. La ragione è che la gloria (kavod) si occulta e si spoglia perfino davanti agli angeli officianti. È scritto infatti nel Salmo 18,12: “Egli mise l’oscurità come suo nascondiglio, essa costituì come un padiglione a lui riservato, attorno a lui: l’oscurità venne causata dalle nubi celesti apportatrici d’acqua”. Ma bisogna anche dire come spiegazione che la “nuvola” è una luce splendente e radiosa. Infatti la parola ‘arafel vuol dire apertura (‘eruy) dell’oscurità (afel). Vale a dire: l’oscurità vi è cacciata via e dissolta. È questo un nome che indica la sostanza della luce eccelsa perché, come le tenebre nascondono in loro un oggetto che diventa invisibile, così è della sostanza luminosa più intensa e più energica del viso della gloria. Essa nasconde e impedisce al contemplatore di essere contemplata. Ciò che attesta che la parola “nuvola” significa “luce” è il fatto che si dica che “là era D-o” (Esodo 20,21). E noi sappiamo che “In lui risiede la luce” (Daniele 2,22)46. Ed è proprio quello che noi recitiamo nelle nostre preghiere: “Tu ti sei manifestato loro [al popolo d’Israele] per mezzo di nuvole radiose” (preghiera di mussaf del nuovo anno). Mosè non è entrato dentro la nuvola, ma le si è avvicinato come un uomo che si accosta alla porta del sovrano senza osare oltrepassarla. Non per nulla ‘Onkelos traduce l’espressione ebraica “Mosè s’avanzò” nell’espressione aramaica “S’avanzò fino alla densa nuvola”47: questo significa: fino al limite dell’accessibilità, “fino-là” e non “al-di-là”. Perché “là” c’era D-o».
Ottavo frammento, anonimo cabbalista:
«“La gloria di D-o apparve nella nuvola” (Esodo 16,10)48 affinché la gloria che è in lui non sia visibile. Dicono i Salmi (18,12 e 97,2) che il Signore fece dell’oscurità il suo nascondiglio ed è circondato da nuvole e caligine. […] Significa in altre parole che l’essenza della gloria non è vista neanche dai suoi officianti e dai suoi messaggeri che gli sono davanti. Ma le nuvole tenebrose sono anche una luce trasparente e translucida come dicono i saggi, benedetta la loro memoria, nella preghiera del mussaf dell’anno nuovo. “Tu ti sei manifestato nelle nuvole radiose”. E le nuvole sono le sefirot. La loro luce, in rapporto alla luce di D-o, è come la luce d’una candela davanti al sole. Le nuvole-sefirot sono come un vetro splendente che brilla e illumina, mostrando a cui le guarda ciò che portano in loro. La decima sefirah (sefirah Malkhut) però è lo specchio che non brilla49. È come uno specchio e colui che la guarda vede la sua immagine in lei. E ciò che è in lei non è vista al suo esterno […] Ecco perché questa sefirah è chiamata “nube di gloria”. La gloria infatti è racchiusa in lei. I nostri maestri, benedetta la loro memoria, l’hanno chiamata “specchio che non brilla” a causa della gloria nascosta nel suo seno. Quando il Santo, che sia benedetto, desidera parlare ai suoi profeti, questa sefirah è colmata della gloria interiore, a seconda del grado cui si colloca, e i profeti comprendono la parola. Ma colui che parla non è visto da loro perché egli resta celato dentro»50.
NOTE
* Matteo Bianchi è studioso di Ebraismo presso l’Università degli Studi di Bologna. Il saggio qui pubblicato è la rielaborazione di quanto presentato dall’Autore nel ciclo dei Seminari di studio su “I volti dell’Ebraismo” promossi dall’ISSR “A. Marvelli” nell’aprile-giugno 2010.
1. Per un interessante biografia di Gershom Scholem si veda D. Biale, Gershom Scholem. Kabbalah and Counter-History, Harvard University Press, Cambridge Massachussets and London 1982. In questo libro l’autore si sofferma sulle scelte culturali di Scholem, che hanno influito sul suo approccio alla qabbalah.
2. Il presunto autore dello Zohar, Moshe de Leon, presenta il testo come scritto da Shim’on bar Yochay. Nell’opera l’ambientazione è quella della Palestina, dove agisce la scuola di bar Yochay e del figlio Eleazar. La leggenda narra che Rabbi Shim’on e il figlio vissero dodici anni in una caverna, dove si nascosero per sfuggire i romani dopo la distruzione del Tempio (70 e.v.). In questa caverna sopravvissero, nutrendosi dei frutti di un carrubo che cresceva all’ingresso accanto ad una sorgente, alla quale si dissetavano. Questa leggenda afferma che nella caverna Shim’on bar Yochay, con l’aiuto del figlio, compose il Sefer ha-Zohar.
3. È una scelta che ho fatto per rendere più chiara la cesura fra la qabbalah medievale e della prima età moderna e quella introdotta da Isaac Luria, che porterà successivamente alle eresie di Shabbetay Zevi (si veda l’opera di G. Scholem, Sabbetay Sevi: il messia mistico (1626-1676), Einaudi, Torino 2001) e Jacob Frank (Cfr. “Un ebreo resta sempre un ebreo”. Vicende dell’ebraismo e del messianesimo nella cultura polacca, a cura di L. Quercioli Mincer, Bibliotheca Aretina, Roma 2008, in particolare il saggio di J. Doktòr, Il frankismo e le sue metamorfosi, pp. 17-65).
4. C. Mopsik, Cabala e Cabalisti, Borla, Roma 2000, p. 85.
5. Sefer Yetzirah, in Mistica ebraica, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 2006, p. 37.
6. Ivi, p. 35.
7. Cfr. G. Busi, Qabbalah visiva, Einaudi, Torino 2008, in particolare il paragrafo dedicato al Sefer Yetzirah.
8. 1Cr 29, 11: «Tua, Signore, è la grandezza, la potenza, lo splendore, la gloria e la maestà: perché tutto, nei cieli e sulla terra, è tuo. Tuo è il regno, Signore: ti innalzi sovrano sopra ogni cosa».
9. Saggezza.
10. Clemenza.
11. Eternità.
12. Intelligenza.
13. Potenza.
14. Fasto.
15. Corona.
16. Bellezza.
17. Fondamento.
18. Regno.
19. Perush Sefer Yetzirah, in Mistica ebraica, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 2006, p. 221.
20. Per una ricostruzione storica dei movimenti e dei personaggi della qabbalah si veda G. Busi, La qabbalah, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 37-117.
21. Cfr. Fuentes clàsicas en el judaísmo: de Sophìa a Hokmah, a cura di R. Gonzales Salinero e M.T. Ortega Monasterio, Signifer Libros, Madrid 2009, in particolare il saggio della professoressa dell’Università di Pavia F. Calabi, La filosofia greca di Filone di Alessandria, pp. 33-50. Per un approfondimento mi permetto di rinviare alla mia recensione del libro, presente nell’ultimo volume dell’ASE (Annali di Storia dell’Esegesi).
22. Cfr. per un confronto con la cultura esegetica cristiana P.C. Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, il Mulino, Bologna 1987.
23. Talmud Bavlì 14b.
24. P.C. Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, cit., p. 62.
25. Valore numerico delle lettere ebraiche: a: trascritto con lo spirito dolce greco e la vocale corrispondente [1]; b: b/v (sempre b nelle parole non vocalizzate) [2]; g: 3; d: 4; h: 5; w: 6; z: 7; j: 8; f: 9; y: 10; k: 20; l: 30; m: 40; n: 50; s: 60; u: trascritto con lo spirito aspro greco e la vocale corrispondente [70]; p: 80; x:90; q: 100; r: 200; ?: 300; t: 400.
26. C. Mopsik, Cabala e Cabbalisti, Borla, Roma 2000, pp. 157-158.
27. Ivi, p. 159.
28. Cfr. G. Busi, La qabbalah, cit., p. 30.
29. Per il testo in italiano della Iggeret ha-qodesh si veda Mistica ebraica, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 2006, pp. 415-444.
30. Iggeret ha-qodesh, in Mistica ebraica, cit., p. 421-423.
31. Si veda per un’antologia di questi testi I sette santuari: cabbala ebraica, introduzione e note di A. Ravenna, traduzione di E. Piattelli, TEA, Milano 1990.
32. Midrash: dal vero ebraico darash, che significa “cercare”. Si distinguono due generi di midrash: il midrash halakhico, diretto a definire la legge, il comportamento e la condotta; e il midrash aggadico, che commenta le parti narrative della Torah, e che influenzò l’esegesi cabbalistica.
33. Cfr. D. Banon, La lettura infinita. Il midrash e le vie dell’interpretazione nella tradizione ebraica, Jaca Book, Milano 2009. 
34. Per i versetti biblici ho utilizzato la Bibbia ebraica, a cura di D. Disegni, Giuntina, Firenze 1995 (Prima edizione: 1960-1967).
35. [vedi nota originale in ebraico].
36. [vedi nota originale in ebraico]. Filone d’Alessandria nel De vita Mosis (I. 158) interpreta il “denso della nube” come “tenebra” e scrive: «Mosè entrò nella tenebra in cui era dio. Vale a dire nell’essenza di dio che non ammette forma alcuna, che è invisibile e incorporale: esemplare degli esseri; Mosè conobbe ciò che sfugge alla visione d’una natura mortal ». Nel De mutatione nominum, paragrafo 7, afferma: «Mosè è l’uomo che contempla la natura senza forme visibili e vede dio. I divini oracoli dicono infatti ch’egli è penetrato nella nuvola scura. Parlano in questo modo, con espressioni  coperte, dell’essenza invisibile e incorporale di Dio». È indubbia l’influenza del pensiero filoniano sulle diverse concezione della Kabbalah medievale.
37. Cfr. G. Busi, Qabbalah visiva, Einaudi, Torino 2005.
38. [vedi nota originale in ebraico].
39. Una delle forme principali per presentare le dieci sefirot è quella della struttura duale, comprendente un principio maschile ed uno femminile. L’insieme delle sefirot è descritto con due principi: l’uno che compie l’azione di emettere (elemento maschile), l’altro che compie l’azione di ricevere (elemento femminile). Ezechiele 37,12: [vedi nota originale in ebraico].
40. Cfr. Zohar: il libro dello splendore, a cura di G. Busi, traduzione dall’aramaico e dall’ebraico di A.L. Callow, Einaudi, Torino 2008.
41. [vedi nota originale in ebraico]. In un’opera risalente al periodo tra la fine dell’antichità e l’inizio del medioevo, La fonte della saggezza, si trova scritto: «Nel momento in cui Mosè salì sulla montagna, sopravvenne una nuvola e gli si pose davanti. Mosè, nostro maestro, non sapeva se doveva montarvi sopra oppure se doveva aggrapparvisi. Subito la nuvola aprì la bocca e Mosè penetrò nel suo seno e poté così muoversi nel cielo come l’uomo si sposta sulla terra. È questo, infatti, che è scritto nella Torah: “Mosè entro nel mezzo della nuvola e s’inerpicò su per la montagna”».
42. Shekinah: la “presenza” di Dio nel mondo. La Shekinah “inferiore” è la decima sefirah (malkhut), mentre la Shekinah “superiore” designa la terza sefirah (binah).
43. [vedi nota originale in ebraico].
44. 2Re 2,11: «[…] Mentre camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo». [vedi nota originale in ebraico].
45. Cfr. Frammento tratto dal Sefer ha-Zohar, III.103a-b.
46. Daniele 2,22: [vedi nota originale in ebraico].
47. Per Ele’azar ben Yehudah da Worms la “densa nube” è una nuvola nera e tenebrosa. Così scrive, alla fine del XII secolo, nel Perush ha-merkavah: «La parola di D-o è come un fuoco più splendente nel suo splendore che ogni altro fuoco al mondo. E questo splendore acceca gli occhi come accadrebbe a uno che volesse guardare il sole in tutta la sua potenza. La gloria dunque, volontà della sua parola, è fuoco ed è avvolta dalla forma d’una nuvola e dalle tenebre. Al momento opportuno la parola esce dalla nuvola. Il santo, che egli sia benedetto, colloca il suo trono tra le acque tenebrose e rivela la sua presenza (Shekinah) nelle nuvole»
48. Esodo 16,10:[vedi nota originale in ebraico].
49. Sefirah Malkhut è detta anche “specchio opaco”, che mostra all’uomo la luce divina riflessa come in uno specchio.
50. Frammento tratto da E.R. Wolfson, Through a speculum that shines, Princeton 1994, p. 273.



Bibliografia sulla qabbalah
一Per concludere vorrei tracciare una prima bibliografia sul tema della qabbalah; spero che possa essere un utile strumento di consultazione ed indagine:
G. Busi, La qabbalah, Laterza, Roma-Bari 1998.
- Qabbalah visiva, Einaudi, Torino 2005.
- Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci, Einaudi, Torino 1999.
J. Dan, La cabbalà: breve introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
R. Goetschel, La cabbalà, Giuntina, Firenze 1995.
M. Idel, Cabbalà: nuove prospettive, Giuntina, Firenze 1996.
- Eros e qabbalah, Adelphi, Milano 2007.
- Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismoEinaudi, Torino 2006.
- L’esperienza mistica di Abraham Abulafia, Jaca Book, Milano 1992.
- Mistici messianici, Adelphi, Milano 2004.
Mistica ebraica, a cura di Giulio Busi e Elena Loewenthal, Einaudi, Torino 2006.
C. Mopsik, Cabala e Cabalisti, Borla, Roma 2000.
G. Scholem, Alchimia e kabbalah, Einaudi, Torino 1995.
- La cabala, Mediterranee, Roma 1982.
- Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993.
- L’idea messianica nell’ebraismo ed altri saggi sulla spiritualità ebraica, Adelphi, Milano 2008.
- La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 2001.
- Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Aldephi, Milano 1998.
- Le origini della Kabbala, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980.
- I segreti della creazione, Adelphi, Milano 2003.
I sette santuari: cabbala ebraica, introduzione e note di Alfredo Ravenna, traduzione di Elio Piattelli, TEA, Milano 1990.
Zohar: il libro dello splendore, a cura di Giulio Busi, traduzione dall’aramaico e dall’ebraico di Anna Linda Callow, Einaudi, Torino 2008.
  • La Cabala di Gershom Scholem è disponibile gratuitamente in PDF facendomene richiesta per via email.
  • Si veda anche l'interessante sito di bibliografia cabalistica in quiete—Qabbalah.