AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
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Wednesday 17 February 2016

IL MALE OSCURO, CANE NERO DI GIUSEPPE BERTO

In realtà la vita come la vedo io è solo una porzione trascurabile di vita la parte più importante svolgendosi nell'inconscio dove si è accumulata nei primissimi anni di vita e forse anche prima della venuta al mondo, e dall'inconscio noi dobbiamo dunque ripescarla e portarla alla conoscenza affinché non ci possa più nuocere né spaventare, e mentre io come essere pensante e ragionevole mi lascio trascinare da alcune migliaia di millenni di cattive abitudini e faccio di tutto per costruirmi un'immagine melata e falsa del padre mio il mio inconscio sa benissimo che questo padre era un cane maledetto che tutti i giorni mi rubava la madre mentre io ero nel pieno della mia situazione edipica ossia per la madre morivo d'amore, onnipotente cane contro il quale io piccolo non avevo difesa all'infuori dell'odio, un odio smisurato come quello dei bambini che non hanno limiti nel voler bene e nel voler male sicché questo mio padre io l'ho ammazzato infinite volte con la mia volontà e il mio desiderio e in altre parole io nel mio inconscio sono infinite volte parricida. 
(Giuseppe Berto, Il male oscuro, p. 311)

I cento anni di Giuseppe Berto, lo scrittore con il male oscuro

Avrebbe compiuto un secolo lo scrittore ex fascista, nemico di Moravia, eppure stimato da molti tra cui Hemingway. Ritratto di Giuseppe Berto, un outsider dell'intellighenzia letteraria italiana, autore del capolavoro Il male oscuro

di Edoardo Vitale (2014)

"Aveva tutto per essere un vincente: talento, fascino, simpatia, ma volle, fortissimamente volle, iscriversi al partito dei perdenti", così si legge in Vita scandalosa di Giuseppe Berto di Dario Biagi, una delle poche biografie dedicate allo scrittore veneto. Quasi nessuno sa chi è Giuseppe Berto, la sua carriera è caduta nell’oblio, sui manuali di letteratura italiana del Novecento viene menzionato a stento, digitando il suo nome su Google si ottengono risultati scadenti: una pagina Wikipedia piuttosto scarna; qualche vecchio articolo; tristi recensioni su blog abbandonati; una voce sul sito del Comune di Mogliano Veneto, dove nacque esattamente un secolo fa.

Di questi cento anni Berto ne ha vissuti sessantaquattro, la maggior parte impiegati in una erratica e morbosa ricerca del proprio ruolo nel mondo, la quale a mio modo di vedere – e diversamente da quanto affermato nella citazione in apertura – non andava volontariamente verso il partito dei perdenti. Berto non è un eremita, tantomeno un reietto: tutte le sue scelte rivelano un palese bisogno di stare dalla parte giusta, i suoi sforzi mirano alla gloria e al successo, nominati a più riprese nei testi e persino, tanta era la centralità, nei titoli dei romanzi (Un po’ di successo, Longanesi, 1963; La gloria, Mondadori, 1978), gloria e successo che custodiscono un disperato bisogno di approvazione, e che ad ogni modo non arriveranno mai. Questo fa di lui un autentico perdente, uno splendido mediocre e non un semplice bastian contrario.

Durante il periodo fascista si arruola e parte volontario nella guerra d’Abissinia del ’35 e poi ancora nel ’42 a Misurata. La dialettica razionalista e pragmatica del ventennio lo attira: gli consente di fuggire dal torpore della provincia e dalla presenza ingombrante del padre, inoltre sembra la miglior soluzione per scacciare tutte le fragilità della gioventù e le incertezze da studente svogliato e perdigiorno (in questo stesso periodo Berto si laurea frettolosamente presso la Facoltà di Lettere a Padova, con una tesi su Canaletto). È proprio sul fronte che scrive i suoi primi reportage ed è durante la lunga prigionia in Texas che entra in contatto con la letteratura statunitense (Hemingway in particolare) e scrive il suo primo romanzo, Il cielo è rosso, pubblicato da Longanesi nel dicembre del 1946, pochi mesi dopo il rientro in Italia. Si tratta di un «inconsapevole approccio al neorealismo» che ebbe un enorme successo e catapultò Berto nel fermento letterario del dopoguerra. Agli ottimi risultati in termini di vendite in Italia e all’estero, si aggiunse il prestigioso Premio Firenze, assegnato da una giuria in cui spiccavano tra gli altri Aldo Palazzeschi ed Eugenio Montale. Proprio a quest’ultimo in un’intervista rilasciata nel ’54, Hemingway dichiarò di aver cari solo tre scrittori italiani: Berto, Pavese e Vittorini. Sembra l’inizio di una carriera brillante, in questo momento Berto è lontano anni luce dal partito dei perdenti.



La famiglia di Berto
Ma «in nessun posto un profeta è tanto disprezzato come nel suo paese, fra i suoi parenti e in casa sua»: in questo passaggio di La gloria Berto si fa sì profeta. Inizia una parabola di insicurezza e incapacità di riscatto, in cui è complicato e pretestuoso tracciare le linee di confine di causa o effetto con le aspre critiche – da esempio sono le stroncature del famoso critico letterario Enrico Falqui che pubblicò un articolo intitolato “Un rosso che dà nel grigio”, accusando l’assenza di uno stile narrativo nell’esordio di Berto –, arrivano i fallimenti, quando Bompiani rifiuta Le opere di Dio giudicandole «una cattiva imitazione dei peggiori americani», i boicottaggi e soprattutto l’ostracismo da quei circoli letterari contro cui nasceranno dure polemiche. La più celebre nei confronti di Moravia, con il quale non correrà mai buon sangue. In una lettera, parlando dell’autore romano, Berto scrive: «La mia disistima per i suoi romanzi, la mia riprovazione per le sue azioni e in più le necessarie componenti di invidia per il suo successo e di amarezza per il mio insuccesso, sono scoppiate la settimana scorsa durante la conferenza stampa sul premio Formentor».

È l’apice dell’ostilità tra i due: maggio 1962. Proprio in quell’anno Moravia inizia la relazione con la giovanissima Dacia Maraini, durante la premiazione de L’età del malessere di cui Moravia aveva scritto la prefazione e caldeggiato la vittoria (ai danni de La vita agra di Bianciardi); Berto accusa la Maraini, ma il bersaglio è Moravia (come titolerà Il Giorno) affermando: «C’è pericolo che la società letteraria si corrompa, che da giudice dei valori si trasformi in carmilla». Non un caso che nell’episodio sia coinvolto anche lo scrittore di Grosseto, che pure a suo modo si ritrovò per lungo tempo a operare nella provincia, distante dai salotti romani, la cui corruzione morale suscitava un’amara ironia: «una città parassitaria, ecco cos’era Roma. […] Uno di noi, a turno, andava a Roma, una volta alla settimana, e al ritorno ci informava delle novità, dei premi letterari, dei libri che dovevano uscire, delle nuove compagnie teatrali, delle deliziose malignità che si dicevano nei caffè, dei pettegolezzi correnti» si legge in un passaggio de Il lavoro culturale (Feltrinelli, 1957) che prosegue: «ci spiegava che lo scrittore Tal dei Tali andava a letto con la Tale, che il regista di quel certo film era poi un pederasta, mentre sua moglie se la faceva con un collega, divorziato da una pittrice lesbica. Insomma l’intellighenzia romana, dicevamo noi, ad altro non pensava che a scambiarsi le donne. Tutti su un letto a duecento piazze, dicevamo ancora, tutti su un letto a duecento piazze avrebbero potuto mettersi gli intellettuali di Roma».

Ma più che una crociata etica quella di Berto è una vera e propria ossessione che avvolge tutto l’ambiente “radicale” che lo sta emarginando e di cui verosimilmente avrebbe voluto fare parte: «Tutte persone che almeno secondo la mia opinione avevano più fama e fortuna di quanto non si meritassero, e questo precisamente perché erano molto legati l’uno all’altro, e in realtà quando usciva un libro loro o di un loro amico alla libreria Rossetti lo tenevano in vetrina per anni quasi fosse stato la Bibbia o la Divina Commedia» scrive ne Il male oscuro (Rizzoli, 1964), e poi ancora, «sono troppo impegnati nel farsi pubblicità, nel darsi premi, nel dedicarsi saggi e critiche in sommo grado encomiastici, nel raccomandarsi l’un l’altro presso editori e direttori di giornali all’estero, e io si capisce in concorrenza con loro non potevo far niente perché ero isolato e quanto mai fiero di esserlo».

I fattori che determinarono questo repentino dietrofront, da acclamato esordiente a cellula amorfa in rotta di collisione con il mondo letterario, sono molti e la loro obiettività sfuma in base agli schieramenti: i detrattori di Berto sostengono che fosse semplicemente un incapace Don Chisciotte in lotta con un ambiente che a stento lo conosceva, i suoi più fedeli sostenitori invece si sono spinti a considerare il bell’aspetto fisico di Berto e il suo successo con le donne, un motivo di invidia e antipatia. Va presa molto più seriamente la pista politica. A Berto non fu mai perdonata la convinta adesione al fascismo e ancor di più gli si accusava di non averne mai preso le distanze pubblicamente negli anni successivi. Un gesto provocatorio che non ha nulla a che vedere con le convinzioni politiche di Berto, disilluso già da un pezzo dai vecchi ideali, ma che si rifiutava di ottenere quella redenzione formale che la maggioranza degli italiani volle dal giorno alla notte.

Berto non si iscrive più a nessun partito, non vota, non prende posizioni e non cavalca nessuna onda ideologica, sostanzialmente si disinteressa della politica a partire dalla ricostruzione. È perciò scorretto considerarlo un anarchico o accostare le sue beghe ideologiche con quelle che in quegli stessi anni vivevano Camus o Foucault e più in là Pasolini: tutti non allineati di lusso e voci critiche delle dinamiche di partito, da cui presero le distanze. Quella di Berto è invece una sfida di principio all’ortodossia degli intellettuali della sinistra del dopoguerra, stuzzicata non di rado con dichiarazioni caustiche: «Sono stato fascista come tanti altri. Non sono stato abbastanza perspicace per afferrare, da giovane, tutto il grottesco del fascismo: mi ci è voluta la guerra per aprire gli occhi. Sono un isolato. Non sono un fascista, ma non sono nemmeno un antifascista». Dichiarazioni che però gli si ritorceranno contro in forma di efferate critiche ai suoi romanzi, dai contenuti (e dai titoli) ambigui. Nel giro di pochi anni Berto si guadagna le antipatie della destra e l’etichetta di nostalgico dalla sinistra. Nel 1951 esce Il brigante, considerato un “romanzo marxista” che viene demolito all’unanimità dalla critica. È solo il preambolo di un vero e proprio tracollo, che giungerà con Guerra in camicia nera (Garzanti, 1955) che l’autore considera «il tentativo più onesto per spiegare la gioventù fascista» ma che invece viene usato come capro espiatorio per essere messo all’indice dal giro giusto degli addetti ai lavori, da cui del resto già era avulso.

Queste vicende, sommate a una ben evidente predisposizione mentale e alla scomparsa del padre, portarono Berto a una devastante nevrosi che lo costrinse a un lungo periodo di silenzio, intervallato solo dalla stesura di dozzinali sceneggiature cinematografiche che gli permettevano di sbarcare il lunario e pagarsi le cure. È il crocevia fondamentale della carriera di Berto, che da tutta questa esperienza ricaverà il suo romanzo di maggiore successo che sancisce anche una piccola rivalsa personale: Il male oscuro edito da Rizzoli nel 1964.

Il titolo – come suggerisce anche l’epigrafe – è una citazione presa da La cognizione del dolore di Gadda*, il quale rimase favorevolmente colpito dall’opera che valse a Berto il Campiello e il Viareggio nel giro di una settimana e da cui Monicelli trarrà un film omonimo. Si tratta di un testo apertamente autobiografico, in cui si segna il passaggio dal neorealismo allo psicologismo. Definito (stavolta benevolmente) “La coscienza di Berto”, per il modo in cui è strutturato e per la centralità della psicanalisi, in comune con l’opera di Svevo. In pochi testi come in questo si entra nell’intimità del senso di colpa generato da un rapporto conflittuale con il padre, in ogni pagina è in rilievo l’angoscia di vivere, l’ansia e la paranoia che rendono un uomo ridicolo e vulnerabile. «La nevrosi è una malattia basata sulla paura. Paura di tutto: della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futuro».

Senza voler suscitare alcuna pietà nel lettore, Berto descrive con naturalezza e distacco scientifico la sua psicosi, perché è così che stanno le cose, non c’è niente di speciale. L’ipocondria e la percezione della catastrofe sono nella normalità di ogni avvenimento quotidiano. Lo fa con una scrittura d’avanguardia, composta da frasi lunghe e scritte di getto: la punteggiatura è messa al bando e rafforza il senso di soffocamento tipico di chi è nel panico. Sono quasi assenti le interruzioni, tant’è che è un libro che si divora in un paio di giorni, non solo per la scorrevolezza, ma anche perché letteralmente sono pochissime le pagine in cui poter mettere il segnalibro senza spezzare la narrazione. In conclusione si giunge a un compromesso, Berto torna volontariamente al suo esilio come se questa volta fosse una salvezza. Lucidamente in appendice ammette che della malattia non potrà più liberarsi, ma è possibile sancire una costosa tregua con essa.

Berto è un vinto, così come tutti i personaggi dei suoi romanzi. La sconfitta e la caduta sono gli unici aspetti che uniscono tutti i suoi lavori, dalla guerra persa nel Cielo è rosso e Guerra in camicia nera, alla morte che vince in Anonimo veneziano, fino alla figura di Giuda Iscariota ne La gloria, che è l’emblema di chi sta dalla parte sbagliata. Sconfitta storica e sociale, caduta del corpo e della psiche, irrimediabilmente traslate nella vita stessa di questo autore dimenticato.

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* Berto trae il titolo del suo libro dalla “Cognizione del dolore” di Gadda e ne cita il relativo passo tra le epigrafi; lo riporto qui perché lo trovo bellissimo: «Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato».

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~Tra cui:
Da quando Flaubert ha detto "Madame Bovary sono io" ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po' meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell'autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall'altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L'autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo. (Giuseppe Berto, dall'introduzione)

~e anche:
Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti, anzi in un certo senso potrebbe perfino costituire una appropriata dimostrazione della validità perlomeno razionale di tali schemi o teorie, sicché, sebbene a me personalmente non ne venga un bel nulla, potrei benissimo sostenere che il mio scopo nello scriverla è appunto quello di fornire qualche altra pezza d'appoggio alle dottrine psicoanalitiche che ne hanno tuttora più bisogno di quanto non si creda... (Giuseppe Berto, Il male oscuro, Incipit)
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Introduzione di Carlo Emilio Gadda a Il male oscuro:

(orig, su "Terzo Programma", 1965)

Finito di stampare da Rizzoli in Milano il 12 marzo 1964 Il male oscuro è stato accolto con favore dal pubblico: da quella parte del pubblico che, dopo aver letto di buona lena il romanzo, ha ritenuto opportuno non disconoscerne i titoli di merito.
Il responso dei lettori ha così anteceduto i responsi delle giurie di Viareggio e di Venezia [Campiello], concordi nel riconoscere e nel proclamare il valore dell'opera a distanza di una settimana l'una dall'altra: 29 agosto e 6 settembre dell'anno scorso [1964]. Quattro o tre o cinque mesi di una lettura che dobbiamo credere attenta e presa d'interesse, data la tematica vasta e ricca e la non agevole accessione del racconto alle persone distratte o prevenute in contrario, data la congerie franosa e precipitosa del dettato narrativo e il moltiplicato, insistito ritorno alla pagina delle idee coatte, le proprie di Giuseppe Berto e quelle di tanti altri! A codeste fissazioni ricorrenti il narratore, e paziente-in-proprio di nevrosi, ha voluto e saputo dar fuoco per illuminare la sua penosa certezza. L'opera di Giuseppe Berto si contempera dei riscontri d'una assai povera (nel senso economico, sociale) o le molte volte drammatica e talora atroce esperienza del vivere; di una indagata e approfondita conoscenza dei rapporti psicologici tra i componenti di gruppo, per esempio il gruppo di famiglia, vere unità psichiche della gente più di quanto unità non sia il vecchio pupazzo denominato persona singola, persona individua; di un'arte del raccontare che snida accanitamente il disperso branco dei motivi, dei temi reali, con la muta latrante delle idee implacabili, la sue proprie dovute alla nevrosi e quelle di certi altri sciagurati che la follia è pervenuta ad asservire. Questa è l'arte o, se si vuole, la tecnica del romanziere Berto: esprimere l'angoria col descrivere la nevrosi, esprimere la follia col penetrare lucidamente, razionalmente, l'interno delirio.

Arduo il compito, inconsueto il modo del narrare: per molti rispetti prossimi all'invenzione, forse al suggerimento cervantino. Il branco degli atterriti motivi si accresce, cioè sembra moltiplicarsi via via nel tempo della caccia, di cui Berto si fa "donno e maestro". La consecuzione cronica del periodare pressoché ansimante ci dà l'ansimo delle immagini in corsa, il cinematismo felice dei caratteri e dei personaggi in continuo movimento, fisico e psichico. I successivi strappi della nevrosi del raccontatore che racconta e giudica in prima persona se stesso e gli altri e la loro psicosi cioè follia e il folle andare del mondo, si susseguono, direi si rincorrono, in un fugato senza scampo, informando quella enumerazione e complicazione e rifioritura di disgrazie a fluenza incessante: le quali si connettono nel magistero sintattico e stilistico del disperato. "Via le virgole!" sembra essere l'emblema di codesta sintassi, "per loro non c'è tempo: la frana è su di noi." Codesto modo o metodo adottato se non inventato da Berto non è, forse, che un'ingegnosa trovata per mettersi in velocità, per raggiungere la corsa espressiva ed adeguarla al rotolamento precipite delle annotazioni.

Chiara, tutt'altro che oscura, appare la distinzione tecnica fra nevrosi e psicosi: nevrosi propria dello scrittore narrante in persona prima e paziente consapevole del proprio patire ma incapace a dominarlo, il che accade appunto nelle nevrosi: psicosi, cioè follia dei "rimanenti" assunti a persone del romanzo: psicosi di mezzo il mondo, destino, forse, dei più tra gli umani. I cittadini e cittadine della Città folle (è il mondo) vengono colti e ritratti nei loro giudizi sbagliati, nei loro movimenti sbagliati, e beninteso nel loro patimento carnale e mentale, quasi come dei contravventori alla legge colti sul fatto. La drammatica realtà del mondo è rappresentata in dolorosa e pur fuggente evidenza, a tratti il racconto ha l'aria di precipitare a un delirio: le ingarbugliate fissazioni di tutti si ingarbugliano ulteriormente fra loro come gioco e stridio molesto di bambini pazzi, fino a indestricabile viluppo. Lo humour scaturisce così dal dettato necessario, come la vena d'acqua dalla sommessa e direi timida fonte della montagna. Berto non fa della satira, non coltiva come legume nell'orto e come carciofo in carciofaia una premeditata derisione di sé o de' suoi simili. Tutta la realtà registrata porta la propria derisione, o la pietà per sé, in se medesima: il fanatismo d'ogni maniera, la scioccaggine dei molti, degli sbandati, dei creduli: la lunga catena verso le conseguite disgrazie, verso l'inevitabile catastrofe. Le disgrazie libidinosamente raggiunte. Sorpasso in curva o in salita a cielo vuoto sull'"asfalto reso viscido dalla pioggia", il platano è là che aspetta: quattro morti: prognosi riservata, ai feriti. Malato-scrivente è il narratore: certi medici, negando ch'egli sia malato, finiscono per regalargli in sopraggiunta la sua cospicua nevrosi, indispensabile a coprire la negazione diagnostica. Tra sofferenze reali (per lui) e immaginate (secondo taluni) la sua nevrosi ha modo a fiorire; ha modo a prosperare e lussuriaggiare come una pianta in terreno adatto, nell'èmpito e nel gioioso rigoglio della primavera.

Certi soccorritori magari ben intenzionati e i molti dementi che si aggirano pel vasto manicomio del mondo e la martellante successione dei ritorni d'idee già incontrate, già patite nella nevrosi del narratore e lo humour non cercato, non pre-orchestrato, ma semplicemente accettato dalla semplice registrazione dei fatti e dalle cartelle cliniche dei caduti "in hac lacrimarum valle", si depongono sulla pagina dolorante come i colori naturali sugli emblemi del nostro percepire naturalmente investiti dalla luce del giorno. Il male oscuro è oscuro quanto il dolore che fa strazio di noi allorché ci sentiamo oggetto di reiterate percosse o ferite, di insistite offese. È il logorio a cui ci sommette di giorno in giorno, d'ora in ora, la nostra "Erlebnis", l'esperienza del vivere, la pena o la fatica durata, la "dura necessità". Il termine "dura necessità, crateré ananke" è termine del ben noto poeta Omero: ed è prestato alla voce del personaggio Ettore che parla alla moglie Andromaca e accoglie e solleva dalle braccia di lei il poppante Astianatte: Ettore, l'eroe che perirà vinto e ferocemente straziato. L'asserita necessità, in quanto necessità, lascia forse un tantino a desiderare, visto che scaturisce bestialmente dall'ira belluina del vincitore, non perfettamente limpida ne' suoi movimenti.

Che questo logorio incessante del nostro organismo fisico e psichico, questo quotidiano consumarsi della nostra vita individua possa dar luogo a una ricca e prosperosa nevrosi in aggiunta ai mali clinicamente accertati dai nostri soccorritori più esperti dell'indispensabile terapia, non deve indurci a un atto d'accusa verso lo scrittore che narra in prima persona, e narra assai bene, cupido di narrare, veritiero e attento. La nevrosi gestita dallo scrittore, paziente e narrante ad un tempo, malato e affaticato dal suo lavoro, questa nevrosi che vuole adempiere al compito di storiografare se stessa, non è male più repellente della nascita, voglio dire della venuta al mondo: e neppure della febbre tifoide o del colera asiatico o della peste o del cancro: né più calamitoso alla patria.

I moralisti e i giudici di tipo severo (agli altri) e magari compiaciuti di una cosiffatta severità, i critici di aspetto accigliato e di torace "cattivone" non dovrebbero aver motivo plausibile a scagliarsi contro la nevrosi d'un romanziere che avesse l'ardire, poniamo il caso, di romanzare la storia di un certo Adamo, figliolo ditel voi, il quale, tentato di... tel voi, dalla fidanzata Eva, sobillata a sua volta da un serpente, ne accettava il dono d'una mela: mela che nel progredire del racconto si rivelerà foriera di mali e, a tutti gli effetti fisici e psichici, alquanto indigena. La storia di Adamo ed Eva è storiografia nel Libro dei libri.

Il romanziere che non tema confessare a se medesimo e agli eventuali suoi lettori le molteplici e intricate realtà ossia le nozioni veritiere a lui disponibili circa la condizione umana, come potrebbe, per ciò solo, venir obiurgato o addirittura incriminato di recar offesa alle persone serie, depositarie e custodi per autoelezione dei principi del vivere? Principi quasi certamente santi, vista la sicurezza e la faccia seria con cui questi nobili psicagoghi dimostrano saperli amministrare e indefessamente tutelare per il bene comune?

Il romanzo di Berto non è opera intenzionalmente nichilistica nel senso ch'esso precluda ai lettori, ai concittadini, o ai compagni di sorte, l'immagine di una speranza del bene, di una possibile felicità dell'evento, di un  soccorso dall'imperscrutabile Mistero. Forse non ardisce avallare e nemmeno sottoscrivere una cambiale in bianco, la preventiva e garantita allegrezza dello spirito per coloro che si sentono sudditi di un'ancipite probabilità. La probabilità, nel suo valore combinatorio-effettuale cioè statistico, può chiuder l'evento sotto buona o sotto cattiva stella, a salvezza o a disastro.

Anche i più volenterosi zelatori del racconto a lieto fine o luminosamente caudato di conclusione edificante, giocoforza è riconoscere che la stretta osservanza d'uno zelo del genere non riesce sempre osservabile allo storico o al romanziere di tipo storico, narratore di fatti già avvenuti e, per fortuna sue e nostra, minimamente acchiappanuvole. Egli discorre di fatti, piacevoli o spiacevoli che siano, gradevoli o sgradevoli per gli organi deputati a lettura nell'organismo delle persone da bene, fatti accaduti un po' qui un po' là e assai umani di certo: assai "comuni" in senso combinatorio statistico, cioè molto più spesso ricorrenti nella storia o, se si vuole, nella cronaca di quanto i benpensanti, per qualità eccelsa del sentire, o per dovere d'ufficio, non si atteggino a credere. I fatti e fatterelli assai curiosi e per lo più assai veri annotati ed esposti da Berto non istruiscono il "cupo caso personale di lui": l'affermare ciò sarebbe mendacio statistico. Sono storie di molta gente, nei continenti e nei secoli. Agli storici e ai cronisti degli orrori e delle disgrazie italiane fra il Trecento e il Seicento, per non dire di più e di meglio, cioè di peggio, non fu possibile tacere o sottacere quanto i benpensanti, oggi, neppur vogliono ascoltare o almeno riconoscere per avvenuto. La mancanza di simpatia cioè di carità che induce taluni a parlare disdegnosi di "moda letteraria", di "moda narrativa", a proposito delle tonalità frequentate dalla scelta di certi narratori, mi fa venire a mente quel mio medico, piuttosto vivace e bianco e rosso nel volto, che volse certe mie labirintiche perplessità con una battuta secca (ed allegra): "Il colesterolo non è più di moda!" quando un semestre avanti era ancora terribilmente di moda, presso i luminari del ramo arterie. Ergo, ne avessi avuto vaghezza, mi dava ampia licenza di bere un uovo fresco alla settimana. "Fresco!" era l'imperioso codicillo: "Fresco!" e sbarrava gli occhioni. "Freschissimo, stai tranquillo", mugugnavo accompagnandolo ed ossequiandolo.

A contrastare il postulato vitalistico-moralistico del lieto fine, o d'una euforica certezza del bene perpetuo o d'una corroborante attesa del meglio a tutti i costi, sono proprio essi i meravigliosi racconti di soggetto "totale", i drammi di qualità esemplare, che assembrano e rappresentano un mondo, o un sistema di accadimenti o di pensieri epici o ciclici, che preludano la cosiddetta nuova storia, che aprano la visione etica nuova, la nuova speranza, a chi è ancora in grado di poter sperare qualche cosa. Non c'è pace che non sia stata preceduta dalla guerra. Non c'è bene che non rimedi a un male. Non v'ha medico il quale non abbia a risanare un infermo. Non v'ha pompieri che non li chiami il fuoco. Né discorrono di bontà e di clemenza i codici del diritto e della procedura penale, ma piuttosto dei delitti pensabili: e delle pene da irrorare a chi ha ferito, ucciso, rubato, falsificato, desiderato e avuto la donna d'altri. Del tutto allegro allegrone, vitale vitalone: non è il Libro dei libri, la Bibbia; non a ogni passo edificante l'Iliade; e l'ardimentosa avventura marina dell'Odissea pur discende all'Erebo, "kat'Eurebóus". I re magnanimi della guerra durata dieci anni, eversori del superbo Ilione, si ritrovano al rimpatrio incoronati una seconda volta della difinitiva corona, tal quale come certi proconsoli e propretori romani reduci dalle guerre d'Asia o di Spagna o del Ponto. Lo straordinario viaggio mediterraneo indi poi oceanico del re d'Itaca sembra avere epilogo negli strazianti versi che il Monti, spegnendo l'epopea nel silenzio, mirabilmente traduce:

Ed Argo, il fido can, poscia che dieci
e dieci anni invano aspettò Ulisse,
gli occhi nel sonno della morte chiuse.

Dieci la guerra, dieci l'interminato mare. Doveva essere cucciolo, il poverino, e di poche settimane, quando la nera nave del navigatore era sparita sull'azzurro. Non è certo allegro o aperto a speranze se non per Fortebraccio ("Egli ha il mio voto di morente!") "Amleto principe di Danimarca", non il monologo centrale della sublime tragedia, dove essere equivale morire e punire, adempiere il dovere sacro ed esecrando verso il padre assassinato e la di lui discendenza, la di lui consecuzione biologica annullata dal delitto: non essere significa esimersi dal dovere della ripartizione verso la richiedente vita. Allegra allegrona, eccettuati gli alti momenti umoristici e umoristico-satirici, l'incessante e vivido moto di caratteri, il subito ribollimento degli émpiti d'ogni cuore, non è la trama e men che meno la chiave etica de I fratelli Karamazov, dove l'uccisione del padre ad opera dell'uno dei quattro mette in stato d'accusa piuttosto il padre che il figlio. È il caso di un padre il quale determina, col metterli al mondo così un po' a casaccio e con l'appropriarsi i miseri beni che a loro spetterebbero, l'infelicità e la sventura dei figlioli. La stoffa di tutti e cinque ha un comune disegno, la sensualità. Tema e sviluppi del romanzo invisi a molti, per i quali un padre per il solo fatto d'essere padre é tabù, nonostante le indicazioni dei referti di polizia e la cronaca d'ogni giorno e il soccorrevole intendimento dei vicini, dei casalinghi, vale a dire del popolo.

Non si può dire di più, non addurre gli esempi infiniti, esemplari per la nostra pietà. Chiudiamo pertanto alla meno peggio. Allegro ed euforico-vitalistico non è né mai avrebbe potuto arrivar ad essere, nel racconto di Alessandro Manzoni, l'impetuoso e generoso figliolo del mercante, che nel sangue suo popolano tuttavia ricusava la gratuita ferocia, l'oltraggiosa prepotenza, la spietata osservanza del "punto d'onore", dell'arbitrio d'uso; che aveva veduto morire nella strada, per un litigio di mano destra, il vecchio servo Cristoforo intervenuto a difesa, a salvazione; che aveva trafitto a sua volta lo spavaldo offensore e assassino; che, pentito di tanto, s'era umiliato a chiedere perdono e aveva indossato il saio dei padri Cappuccini; che si spense di peste, confortando gli infermi sopravvissuti, assistendo i morenti, nel lazzaretto di Milano. Né pace ebbe mai, in nessuno dei tristi giorni del suo vivere, il più vero e splendido personaggio del grande romanzo. Proteso l'animo verso la speranza di vivere e il desiderio di amare, avviata e costretta dal padre a inesplicabile clausura, consegnata, dopo la rovina voluta e a lei procurata dagli "altri", dal padre, il primo degli "altri", consegnata ai castighi senza remissione in ottemperanza alle leggi del mondo, il mondo le recò a colpa e a disdoro l'esser caduta, vittima fin dai teneri anni del padre disumano, del fratello primogenito avido e ignaro di amor fraterno, solo riguardoso del proprio così creduto "diritto". Era il secolo, era l'usanza, era il costume, erano gli "obblighi del mondo". Rileggete quelle pagine, dolce testimonianza della pietà, e terribile atto d'accusa che lo storico e romanziere senza eguali in Italia sentì di dover muovere a tutto l'apparato fittizio del cosiddetto Bene, alla moda, al costume, al puntiglio, al diritto conclamato, alla procedura, alle grida, ai salvacondotti, alla salvaguardia di un odioso privilegio economico quale il maggiorascato da parte degli istituti cosiddetti umani.

Nelle pagine che stiamo per leggervi del romanzo Il male oscuro, voi potrete riconoscere le singolarità descritte e cioè:

Periodare asintattico, rotolamento e ricorrenza di idee coatte. Disgrazie a fluenza incessante e temi della nevrosi. Positivisti in punto di morte: alcuni temono il peggio. Esaurimento come nevrosi da angoscia. L'ossessione del padre fisico sepolto fa male alla salute (del figlio). Il pianto facile. Difficili rapporti coi produttori. Essi diffidano di chi piange senza giustificato motivo, belle ragazze eccettuate. Coliche renali e medico di casa. Agopuntura cinese. Cure omeopatiche. Confettini sotto la lingua. Guaritori e maghi. Quadratura mentale: ereditata dal padre ex maresciallo e negoziante fallito. Liberi docenti e titolari di cattedre, fogli delle ricette con qualifica di "specialista" a non finire. Dormire a finestra aperta, mangiare pere la mattina presto. Basta un po' di valeriana. Perdono la pazienza. Pretendono che il malato "guarisca da solo". C'è scarsa convenienza. Ritorna la ragazzetta dell'agopuntura cinese. Agopuntura cinquemila lire. Piangi, piangi, che ti fa bene. Dolori al colon. Il cancro paterno. Disintegrazione dell'Io. Dolori alle vertebre lombari. Caldo e freddo. Alcune città sovrabbondano di specialisti e di cliniche per i malati di cervello. Sono carissime. Non ho i denari per essere ricoverato... e così di seguito.

[...] ...seguono alcuni brani che Gadda stralcia dal libro di Berto, per dimostrarne lo stile e le succitate singolarità.

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Ciò che mi opprime non si può curare: è la mia croce e devo portarla, ma Dio sa quanto si è incurvata la mia schiena per lo sforzo. ~S. FREUD, Da una lettera del 1900
Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore. ~ESCHILO, Prometeo


Appendice di Giuseppe Berto al suo Il male oscuro (1964):

Per i miei primi tre romanzi Il cielo è rosso, Le opere di Dio e Il brigante, scritti tra il 1944 e il 1950, io vengo considerato uno degli esponenti del gruppo neorealista. Non dico di no, tuttavia bisognerebbe prima vedere che s'intenda per neorealismo e sforzarsi di dare a questa moda o movimento che sia una definizione il più possibile comprensiva e nelo stesso tempo il meno possibile vaga. Come e più di qualsiasi altro movimento letterario, il neorealismo va inquadrato in una situazione storica: è indubbiamente una reazione al fascismo e alle tendenze letterarie che avevano avuto fortuna sotto il fascismo. Queste tendenze erano grosso modo due: una, chiamiamola di adesione, che si basava sulla retorica di tipo dannunziano; l'altra, di evasione, che si distingueva per la sua assenza dalla vita pubblica e per la ricerca di alcuni valori puramente formali. Sebbene non manchino significative anticipazioni, il neorealismo si sviluppò verso la fine della guerra e soprattutto nell'immediato dopoguerra, e naturalmente si contraddistinse per una quasi rabbiosa aderenza alla realtà, specie alla realtà più cruda cioè meno imperiale e fascista, e per un linguaggio disadorno, concreto, sretoricizzato - ma qui ci furono dei grossi malintesi e non ci sarebbe da sorprendersi se, tanto per dire, Vittorini, che è il campione numero uno o due del neorealismo, venisse un giorno accusato di retorica al pari dei dannunziani che si proponeva di combattere. La reazione al fascismo è per così dire la condizione esteriore degli scrittori nearealisti. Quella interiore è data dalla volontà di presenza nella vita sociale e politica della nazione: lo scrittore che finalmente era interprete della realtà e delle istanze del suo popolo, che finalmente usava un linguaggio comprensibile alle masse per la sua immediatezza e semplicità, diventava uno dei protagonisti del suo tempo, contribuiva colle sue opere al progresso storico e all'affermazione di quei principi altamente umani e sociali che poi erano press'a poco gli stessi che gli Alleati vittoriosi avevano stampato sulle Amlire.

Se dovessimo badare ai risultati politici, l'unica opera neorealista sarebbe un'opera che non lo è affatto, ossia Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, che ha una struttura tradizionale e un linguaggio pieno, alto, dotto, del pari tradizionale. Per fortuna in letteratura i propositi non contano molto, pertanto può anche darsi che tra le opere neorealiste ce ne sia qualcuna letterariamente valida, quasi fortuita testimonianza d'un brevissimo periodo della nostra storia. Per il resto, cioè come movimento di idee e fervore di propositi, il neorealismo fu un grosso fallimento. Mentre gli scrittori impetuosamente lavoravano su quella realtà che tanto li innamorava, la realtà cambiava senza che loro se n'accorgessero: il mondo si spaccava in due tra Russia e America e di conseguenza anche da noi finiva il precario accordo che aveva tenuto insieme le disparate forze politiche uscite dalla guerra contro il fascismo. Nel 1950, che è l'anno della guerra di Corea, il neorealismo era finito perché era finita anche l'ultima illusione che uno scrittore potesse esserwe tra i protagonisti della vita d'un paese fraternamente unito e concorde nel volere una determinata forma di progresso. Gli scrittori che maggiormente s'erano compromessi col neorealismo si trovarono davanti il vuoto. Nel 1950 si uccise Cesare Pavese: forse non si è ucciso proprio per questo, ma sicuramente si è ucciso anche per questo. Press'a poco da quel tempo data il silenzio di molti scrittori, dei quali vorrei nominare almeno il più noto, che è Vittorini, e il più promettente, che era Franco Lucentini. Altri, è vero, andarono avanti facendo finta di niente, sfornando uno dopo l'altro libri che hanno magari avuto successo ma sono libri inutili, come tutti i libri di maniera. Altri ancora, sviluppando fino a conseguenze estreme i propositi di larga comunicazione con le masse, si diedero al cinema.

La crisi del neorealismo aveva questo di buono: che portava lo scrittore alla libertà. Respinto nel posto appartato che gli si addice, sciolto da impellenti impegni sociali, dal progressismo programmatico, dal legame d'adesione ai motivi di gruppo, dalla servitù di scrivere male per arrivare subito al maggior numero possibile di lettori, lo scrittore era ora libero di scegliersi i temi e i modi di narrare che più gli piacevano, senza alcun'altra responsabilità verso se stesso. Può capitare però che la responsabilità verso se stessi sia più dura di una prefabbricata responsabilità verso il prossimo, e che la libertà sia, almeno sul momento, un dono più che altro sconcertante. In quel momento di trapasso ciascuno ebbe le sue avventure e a me capitò, credo, una delle peggiori: Il brigante, che è con Le terre del Sacramento di Jovine uno dei due romanzi marxisti della nostra letteratura, uscì, naturalmente senza l'appoggio di alcun partito, nel 1951, cioè in pieno tempo di maccartismo. Molti lo presero a insolenze. Emilio Cecchi gli dedicò una memorabile stroncatura nella quale tentò perfino una via del tutto insolita per lui, l'umorismo, e pare anche che ci sia riuscito, ma certo non posso dirlo io dato che l'esperimento l'ha fatto sulla mia pelle. Comunque credo che si sbagliasse nei motivi per cui il libro doveva essere condannato e che gli mancasse la buona volontà, o la sensibilità, il coraggio di trovare le ragioni per cui poteva essere salvato. Stava a me dimostrare che aveva torto cioè far vedere che, pur sotto un impianto ingenuamente neorealistico, quel romanzo conteneva i segni di una giusta evoluzione, ossia aveva, rispetto ai romanzi precedenti, una maggiore penetrazione psicologica e un linguaggio più curato e complesso. Bastava sviluppare quelle premesse. Mi venne la nevrosi.

Della mia nevrosi potrei dire come del suicidio di Pavese: non mi è venuta per questo, ma sicuramente m'è venuta anche per questo. La nevrosi è una malattia basata sulla paura. Paura di tutto: della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futuro. Per uno scrittore è, particolarmente, paura di scrivere. Nella nostra storia letteraria abbiamo due insigni esempi di scrittori nevrotici: Italo Svevo, che per oltre vent'anni riuscì a non scrivere nulla, e Carlo Emilio Gadda che imposta i suoi rari romanzi su trame robuste, addirittura con un bel delitto dentro, e inevitabilmente si perde nel nulla.

La nevrosi è una malattia subdola nel senso che l'ammalato continuamente oscilla tra la disperazione di non guarire mai più e la speranza di guarire miracolosamente da un giorno all'altro, e così non si cura o si cura in modo sbagliato, e arrischia davvero di rimanere involtolato per sempre nel suo male. Comunque la cosa indispensabile perché un nevrotico possa mai tornare ad una vita normale o quasi normale è la volontà di guarire. Io credo di non averla perduta se non nei brevi periodi delle peggiori crisi. Ho scritto infatti, nel decennio della malattia, un diario intitolato Guerra in camicia nera, il dramma L'uomo e la sua morte sulla fine di Salvatore Giuliano, e alcuni racconti. Ma il romanzo, ambizione ultima di un narratore, non voleva uscire. Ne cominciai due e tutti e due si fermarono, il primo perché mi pareva che difettasse dell'idea generale, come direbbe Cecov, e il secondo perché mentre stavo lavorando mi venne una crisi talmente terrificante che mi bloccai al punto dov'ero arrivato. A quel tempo ero quasi certo che non avrei scritto mai più. Poi la disperazione mi portò a tentare, dopo che avevo provato e scartato decine di medici d'ogni scuola e tendenza, la psicoanalisi.

Non credevo allora nella psicoanalisi e temo di non crederci neppure adesso, per quanto riconosca che dev'essere vero il principio su cui la psicoanalisi si fonda, ossia l'idea che noi nella nostra primissima infanzia abbiamo amato e odiato in modo incontrollato e spaventoso, abbiamo avuto paure terribili e mostruose, gioie incontenibili, attrazioni e ripulse prepotenti, e tutto questo benché dimenticato è rimasto dentro di noi, depositato nell'inconscio, da dove continua ad influire in misura determinante sulla nostra condotta. Il punto di forza della psicoanalisi, ad ogni modo, non è tanto la dottrina quanto l'analista. Io ebbi la fortuna di trovare un uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso. Egli mi aiutò a uscire senza eccessivo sconforto dalle crisi più brutte del male, mi condusse gradatamente a guardare dentro di me stesso senza paura o vergogna di ciò che vi avrei potuto trovare perché qualunque cosa vi avessi trovato sarebbe stato sempre qualcosa di attinente all'uomo, mi portò a mettere ordine nella mia coscienza, coltivò e rinforzò la voglia che avevo di guarire. Sostenuto da lui ricominciai a scrivere come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti: scelsi una ventina dei racconti già scritti e li riscrissi tutti da cima a fondo, rifacendoli anche tre o quattro volte in qualche punto, modificandoli e approfondendoli, arricchendoli di nuovi spunti: ne venne fuori il volume Un po' di successo. Ora potevo provarmi a scrivere un nuovo libro. L'analista mi consigliò di non insistere nei due tentativi di romanzo da anni riposti nel mio cassetto, era preferibile che tentassi una storia del tutto nuova, e non dovevo pretendere troppo da me stesso, la cosa essenziale essendo che arrivassi comunque alla fine del lavoro, non dovevo per alcun motivo fermarmi prima della fine.

Così scrissi Il male oscuro, che è press'a poco il racconto della mia malattia. Lo buttai giù
 in Calabria, in un luogo isolato che si chiama Capo Vaticano, impiegando poco più di due mesi di tempo, senza gravi difficoltà. Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male. Ricordavo le parole del Prometeo incatenato che poi ho voluto mettere sul frontespizio del libro: "il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore". La grande paura era di fermarmi e forse fu questa paura che mi fece trovare un modo di scrivere, sembra, abbastanza nuovo: periodi interminabili che corrono per pagine e pagine senza punti, con pensieri che si collegano l'uno all'altro in apparente libertà - sono, in fondo, le associazioni della psicoanalisi - ma con un costante desiderio di ordine, di logica, di chiarezza.

Arrivato alla fine bisognava, si capisce riscrivere tutto da capo, magari più volte, ma oramai la materia c'era e c'era anche l'arco del racconto. Prima d'andare avanti però era necessario vedere un'altra cosa, cioè se per caso altri non avessero già scritto nello stesso modo. Temevo Joyce, che conoscevo fino a Dedalus, non oltre. Misi in bella copia una trentina di cartelle e le portai a un critico di mestiere, di quelli che sanno press'a poco tutto. Esaminò il mio scritto e giudicò che non vi era alcuna connessione con Joyce*. Casomai ci potevano essere delle affinità con i francesi dello sguardo e del nuovo romanzo, ma questo non mi faceva paura: non li conoscevo, ed erano troppo nuovi perché potessero essermi arrivati per via indiretta. Così continuai nel mio lavoro, abbastanza tranquillamente. Mi pareva di avere alle spalle Svevo e Gadda, ed era a mio avviso una buona compagnia. Naturalmente riscrivere il libro mi costò molto più tempo e fatica di quanto non mi fosse costato scriverlo: ci misi un anno e mezzo. Il titolo lo trovai ne La cognizione del dolore di Gadda: "Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato".

Il male oscuro è e non è un romanzo. Come romanzo è la storia di un mezzo intellettuale di provincia che viene a Roma sognando di scrivere un capolavoro e finisce per vivere ai margini del cinema tra i caffè di Via Veneto e quelli di piazza del Popolo, pieno d'invidia per quelli che fanno fortuna. La morte del padre e alcuni madornali errori clinici lo conducono alla nevrosi. Nonostante questo si sposa, ha una figlia, continua a lavorare alla meno peggio scrivendo per il cinema, spaesato e ridicolo e sempre più ammalato. Infine ricorre a uno psicoanalista che mette in luce la vera causa della nevrosi: la censura troppo stretta di un Super-Io rigido e pletorico. Curandosi assiduamente riesce a guarire, ma una volta guarito scopre che la moglie lo tradisce ormai da alcuni anni. È un colpo spaventoso, che minaccia di travolgerlo. Tuttavia il dolore rimane dolore, non si trasforma in angoscia. È la prova della sua guarigione dalla nevrosi. Però non riesce ad accettare il male che gli hanno fatto: si ritira in un luogo solitario come un anacoreta, rifiutando la società e la famiglia, sempre più pensando al padre, alla fine identificandosi in lui nell'accettazione della morte.

Come non-romanzo Il male oscuro è la descrizione di una nevrosi da angoscia e della cura per guarirla e delle esplorazioni nell'inconscio per mezzo dei sogni e delle associazioni. Il mio libro ha dei precedenti illustri nella nostra narrativa: prima di tutto La coscienza di Zeno di Svevo e poi La cognizione del dolore di Gadda, aborto di romanzo ma mirabile descrizione d'un nevrotico. Io seguo le loro strade, però con un'assoluta indipendenza di modi narrativi e con una preparazione del tutto svincolata dalla letteratura, poiché racconto un'esperienza personale. Inoltre credo che nessuno prima di me si sia spinto così a fondo, senza preconcetti né divieti, nell'analisi di un uomo. Se la malattia del protagonista era annidata nell'odio per il padre, nelle funzioni sessuali, nell'ansia di trovare Dio, nei meccanismi intestinali, negli abissi della masturbazione, nell'avvilimento di fronte ai radicali, nell'esaltazione del primo bacio, nel terrore dell'omosessualità, nell'ossessione del cancro, nella smodata ambizione, nei torbidi stimoli segreti, ebbene lì bisognava che io l'andassia cercare col coraggio di arrivare il più possibili in fondo, non dimenticandomi ciò che il mio analista mi aveva insegnato: qualsiasi cosa fosse venuta fuori, sarebbe stata comunque qualcosa attinente all'uomo. Ecco, proprio questo è ciò che può dare una giustificazione al mio libro e in particolar modo alle sue parti più crude e diciamo pure sgradevoli: la validità verso tutti, l'esplorazione di una parte di noi stessi che forse non abbiamo il coraggio di guardare, ma c'è, esiste in noi, e nasconderla non serve che a renderci sempre più ammalati e infelici.

Nonostante racconti la più straordinaria sequela di disgrazie che possano capitare a un uomo, Il male oscuro non è, spero, un romanzo deprimente e neppure noioso. Ha, spero, un continuo umorismo che si mescola anche agli avvenimenti più tragici e tristi. Non è certo un'invenzione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima e meglio di me, e d'altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall'umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni.

In quest'anno 1964 compio cinquant'anni. Ho un sacco di fobie: non viaggio in treno né in aereo né in nave, non salgo oltre il quarto piano delle case, non mi chiudo nelle sale da concerto, non vado ai funerali, non m'intaso con la macchina nelle strade del centro, non mangio frutta né verdura, non saluto le persone antipatiche: potrei continuare per un pezzo. Sono quindi ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere. Cinquant'anni sono molti ed è doloroso pensare d'aver perduto in una malattia i dieci anni più fecondi della vita. Però a pensarci bene non sono stati del tutto perduti: mi hanno insegnato a sentire e a riflettere come forse non sarei mai riuscito a fare se fossi stato sempre in buona salute. Sono abbastanza sicuro di me stesso mentre scrivo e so di essere moderno, aperto a tutti i problemi del nostro tempo anche se l'idea di un bussolotto che gira intorno alla terra con un uomo dentro mi dà, in fondo, parecchio fastidio. Uscire dopo tanti anni con un nuovo romanzo - che non è certo un romanzo facile e potrà essere preso anche in malo modo - mi fa paura, ma non molta. So di avere, giustamente, tanti nemici: a causa del mio carattere scorbutico e degli atteggiamenti spesso intransigenti. A causa di questi stessi difetti però ho anche qualche amico, e mi basta.

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* Uhm, strano..., nemmeno col suo Ulysses? Cfr. i flussi di coscienza dei rispettivi capitoli  3 e 18. Ciò dimostra che i critici "di mestiere... che sanno press'a poco tutto", in realtà sanno poco o niente. (N.d.R.)


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  • Cfr. l'articolo di Fulvio Panzeri qui: CON GIUSEPPE BERTO ATTRAVERSO IL "MALE OSCURO" del 6 aprile 2014
  • Si veda la mia pagina con articolo di Luca Doninelli: BERTO, UN TALENTO IMMENSO
  • Si veda anche il saggio critico (in pdf) di Cecilia Gibellini: La grammatica della follia. Svevo, Pasti, Berto, Mari, Samonà, Manganelli