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SEMIOTICA E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

Umberto Eco 
Semiotica e filosofia del linguaggio 1

Se andate a consultare gli atti del primo congresso internazionale di semiotica (Milano 1974)2 vedrete che sono suddivisi in 13 sezioni. Dopo una sezione generale, aperta dall'ormai famoso "Coup d'oeil sur le développement de la sémiotique" di Roman Jakobson, seguivano una sezione di tono filosofico, dedicata ai Fondamenti, e una sui rapporti tra Linguistica e Semiotica. Quindi c'erano i Linguaggi Formalizzati e Scientifici, Semantica e Pragmatica, Semiotica della letteratura, delle arti visive, del cinema, televisione e teatro, architettura, musica; quindi una sezione dedicata alla semiotica delle culture, una sul comportamento non verbale, e infine una sulla psicopatologia. 

Era molto, e già il programma del convegno mostrava quanti temi possano essere affrontati da un punto di vista semiotico. Ma era poco, se si considera il programma del quinto congresso internazionale di semiotica, che si è svolto nella seconda metà di giugno 1994 a Berkeley. Se nel 1974 poteva parere normale che si affrontassero semantica e pragmatica, le varie arti, i sistemi non verbali e persino la psicopatologia (non dimentichiamo che era presente al congresso anche Jacques Lacan, e che a quell'epoca molti semiologi si confrontavano con la psicoanalisi), il programma del congresso di quest'anno lascia sorpresi per l'immensa varietà dei temi. Ne cito solo alcuni, tralasciando quelli più ovvi, o simili ai temi del primo congresso. 

Troviamo metateoria, Biosemiotica, Intelligenza Artificiale, Science Cognitive, Analisi del discorso politico, Temporality, Japanese Pragmatics, Semiotica del Silenzio, Semiotica della Morte, Cyberspace, Legal Semiotics, Media, Body, Religion, Simmetria in Cristallografia, Marketing, Scrittura e Calligrafia, Humor, Didattica, Sign Processes in Human-Computer Interaction, Post Modern, Library and Information Science, Other Sexuality, Analysis of the Cold War, Medical Semiotics... 

E' giunto dunque il momento di chiedersi se la semiotica sia una scienza, una disciplina particolare col proprio metodo, o una confederazione di ricerche con poca connessione tra loro.

Certamente io sarei d'accordo nel definire la semiotica lo studio della semiosi in tutte le sue forme, e la semiosi è un processo che si trova a molti e diversi livelli, ogni qual volta qualcosa sta al posto di qualcos'altro sotto qualche rispetto o capacità, e si stabilisce un rapporto tra un segno, il proprio oggetto e il proprio interpretante - come avrebbe detto Peirce. Ma basta questa definizione, in sé assai vasta, a circoscrivere i limiti e il campo di una disciplina?

1. Semiotica generale e semiotiche specifiche 

Nel mio Semiotica e filosofia del linguaggio (1984) asserivo che la semiotica in quanto disciplina pone il proprio oggetto, anziché trovarlo come dato: e vedremo più avanti che, a certe condizioni, non intendo discostarmi da tale assunzione. Allo stesso titolo la fisica pone i concetti di atomo, forza, inerzia o tempo, e la zoologia non potrebbe decidere se un organismo è o no di sua competenza senza porre un concetto di organismo animale. Ma questo gesto di posizione può avvenire perchè lo studioso è pur sempre determinato da una serie di accadimenti empirici che sarebbero riconosciuti come tali anche se non esistesse una scienza che li studia. 

E' facile asserire che esiste una storia della letteratura di lingua spagnola. Si può trattare questa letteratura con metodi diversi, far la biografia degli autori, la ricostruzione filologica dei testi, l'analisi post-moderna o decostruzionista di un'opera; si può usare un metodo strutturalista, marxista, sociologico... Ma siamo sempre di fronte al fatto empiricamente verificabile che esistono dei testi scritti in castigliano, siano essi un brano di Alfonso el Sabio, una pagina di Cervantes, di Gracian, di Marcelino Menendez y Pelayo o di Gabriel Garcia Marquez. Del pari la zoologia può provare imbarazzo a classificare l'ornitorinco, ma esiste una capacità intuitiva da parte di ogni essere umano di riconoscere un essere vivente, e al massimo si possono discutere alcune situazioni di frontiera in cui la scienza zoologica deve decidere se certi microrganismi siano animali o piante. 

Pensate invece all'imbarazzo di una disciplina come l'estetica. Al di là del settore tutto sommato impreciso (attraverso il tempo e lo spazio geografico) di quelle che gli uomini presentano come opere d'arte, pare che gli esseri umani denuncino esperienze estetiche nei casi più disparati, di fronte a un tramonto, a una rana, a un cibo, a un altro essere umano spesso, per altri, di dubbia bellezza; e dicono belli dei sentimenti, dei ragionamenti matematici, o l'esperienza del divino. L'unica decisione empiricamente giustificabile sarebbe accettare come oggetto di una teoria estetica tutte le esperienze rispetto alle quali gli esseri umani pronunciano la parola "bello", ammesso e non concesso che i suoi equivalenti in ogni lingua siano sinonimicamente tali: ma accade che gli esseri umani non pronuncino questa parola di fronte a esperienze che molti definirebbero come estetiche, o la pronunciano in situazioni che nessuna teoria estetica esistente troverebbe adeguate. 

Ed ora veniamo alla semiotica. Per il laico può apparire sovente incongruo che si trovino riuniti sotto la stessa egida studiosi che parlano delle strutture sintattiche dello Swahili e altri che analizzano la direzione di uno sguardo in un quadro del rinascimento, per non dire di altri ancora che si interrogano sui meccanismi inferenziali che guidano il medico nel diagnosticare una polmonite o sul problema se esista un sistema di comunicazione tra linfociti. E non solo il laico ma anche il chierico talora si chiede se la semiotica debba occuparsi, oltre che dei processi comunicativi intenzionali, anche di quelli nel corso dei quali si tratta un sintomo naturale come se fosse stato intenzionalmente emesso a fini comunicativi. 

Di solito noi ci sentiamo molto sicuri di noi stessi quando rispondiamo al laico che è solo dovuto alla sua pochezza il fatto che non veda una relazione tra la parola fumo e un fil di fumo, tra la lingua tedesca e il sistema di segnalazione semaforica, tra l'emissione di un atto linguistico e l'ostentazione di un paio di scarpe alla moda. Non pensiamo più, da qualche decennio, che tutti questi fenomeni debbano essere investigati con gli strumenti della linguistica; non pensiamo più che la semiotica debba solo occuparsi dei sistemi di segni o dei segni organizzati in sistema, perchè sappiamo di dover spiare anche i momenti in cui si comunica senza, al di fuori, prima, contro il sistema; sappiamo che si può far semiotica sia studiando le regole che i processi, compresi i processi sregolati. E tuttavia potremmo ancora enunciare alcuni principi, che non ritengo indispensabile riassumere in questa sede specializzata, ci provengano essi da Saussure, da Hjelmslev, da Peirce o da altri. Questi principi permettono a chi si dice semiotico di asserire che esso vede un fenomeno empiricamente verificabile comune a molti fenomeni, al di là di molte evidentissime differenze: il semiologo è colui che si lascia incuriosire dal fatto che perlomeno gli esseri umani usano fonazioni, gesti, oggetti naturali o artificiali per riferirsi ad altri fenomeni (oggetti, classi di oggetti o stati di fatto) che non sono percepibili durante quella interazione specifica, che spesso non esistono, o che hanno una forma di esistenza diversa da quella fisica.

La prova che gli umani siano capaci di far questo è che se mangiano un pezzo di carne anche il loro gatto se ne accorge, e reclama la sua parte, mentre se emettono la fonazione Caracas è a sud di Buenos Aires, il loro gatto rimane inerte mentre il loro eventuale interlocutore umano reagisce in modo che altri interlocutori umani interpreterebbero come manifestazione di dissenso. Il semiologo chiama questo fenomeno semiosi. Forse è più facile riconoscere l'esistenza empirica di testi scritti in castigliano o di esseri animali che non quella dei processi di semiosi, e per questo la semiotica fa più fatica a farsi riconoscere che non la storia della letteratura o la zoologia, ma è costato altrettanto sforzo far riconoscere l'esistenza empirica dei bacteri; e l'esistenza degli atomi, benché nessuno ardisca metterla oggi in dubbio, non si verifica a livello di percezione quotidiana. 

Pertanto, anche se una frase è diversa da un poema epico, e se il modo in cui percepiamo i segnali del Morse è diverso da quello con cui percepiamo la forma e le sfumature cromatiche di una nuvola, sosteniamo, esplicitamente o implicitamente, che in tutti i casi deve agire un meccanismo comune, per quanto disparati appaiano i suoi esiti superficiali: se è lo stesso apparato fisiopsicologico che ci mette in grado di capire la frase domani pioverà e la nuvola che annuncia una pioggia non ancora esperita, allora deve esserci qualcosa che permette di unificare questi due processi di apprendimento, elaborazione, previsione e dominio intorno a qualcosa che la semiosi non ci mette davanti agli occhi. 

Ed ecco dunque che il chierico non si stupisce se allo steso congresso qualcuno parla del rapporto tra un pronome e il sostantivo che esso anaforizza, un altro del modo in cui un racconto annuncia le proprie fasi successive, e un altro ancora delle convenzioni per cui, basandoci su previe e naturali esperienze, una manica a vento induce a prevedere le sequenze future del viaggio che stiamo per affrontare. 

Se così stessero le cose, non potrei che ripetere quanto ho già sostenuto in altre sedi. Esiste una semiotica generale che non può e non intende investigare i meccanismi di funzionamento di specifici processi di semiosi e che si preoccupa di porre filosofico alcune categorie fondamentali, quali quella di semiosi, di segno, di rapporto di significazione, d’inferenza interpretativa e così via. Questa semiotica generale ha per scopo di mostrare la fondamentale unità di esperienze per altri versi assai diverse, per quanto generalissimo sia il suo punto di vista, e lontano l'obbiettivo con cui mette a fuoco i dati molteplici delle nostre varie esperienze. Questa semiotica generale è una branca della filosofia, o meglio è la filosofia intera in quanto impegnata a riflettere sul problema della semiosi. 

Rispetto alla semiotica generale, esistono le semiotiche specifiche, che sono lo studio di un determinato sistema di segni e dei processi che esso può consentire: Esempio principe di semiotica specifica è la linguistica. Ma è semiotica specifica anche lo studio della segnaletica stradale, e buono per il secondo che i suoi cultori abbiano ad affannarsi meno dei cultori della prima, così come oggi un rilevamento costiero è più semplice dell'indagine sulle origini e composizione di una galassia. Ed è semiotica specifica anche lo studio di processi i cui pare agire il motore della semiosi, e che tuttavia non sono ancora o non possono essere riconducibili a sistemi soggiacenti stabili, e rispetto ai quali si è ancora fermi alla ricerca sul campo, alla raccolta paziente dei dati, al tentativo di dirimere contraddizioni teoriche. Ma in definitiva molte semiotiche specifiche possono raggiungere lo status di una scienza umana e come tali delineare dei sistemi di regole, dei criteri di interpretazione, nonché elaborare previsioni almeno statisticamente attendibili, nel senso che si può prevedere che per esprimere l'azione di un agente su un paziente gli utenti di una certa lingua si atterranno mediamente ad alcune strutture sintattiche definite, e che in un corpus di racconti popolari al complicarsi della peripezia dovrebbero mediamente sopraggiungere alcune formule standardizzate di scioglimento. 

Questo rende comprensibile perchè a un convegno di semiotica partecipino sia cultori di semiotiche specifiche, che fanno ricorso alla filosofia come lo studioso di qualsiasi scienza che sempre presuppone un apparato concettuale e una propria metafisica influente, e filosofi per cosi dire puri, i quali fanno semiotica come filosofia della semiosi. 

Perchè una semiotica generale come filosofia della semiosi possa legittimare delle semiotiche specifiche, occorre che il suo proprio oggetto, sia pure posto filosoficamente, abbia dei limiti, tali almeno da permettere di distinguere una semiotica specifica da una fisica specifica o da una embriologia specifica.

2. Grammatiche, semiotica generale e filosofia del linguaggio

Il problema è piuttosto che, se si accetta la mia definizione di semiotica generale come riflessione filosofica sul fenomeno della semiosi, ci si può legittimamente chiedere in che cosa una semiotica generale differisca da una filosofia del linguaggio.

Siccome non mi interessano i nomi o le etichette accademiche, ma quello che si fa, potrei tranquillamente rispondere che mi va benissimo identificare semiotica generale e filosofia del linguaggio. Tuttavia l'esistenza di discipline all'interno degli ordinamenti universitari riflette differenze di scuola e di metodo, e bisogna riflettere su queste differenze. 

Esistono delle scienze specifiche del linguaggio come la linguistica o la glottologia o - in altri sistemi semiotici - l'iconografia o la musicologia. Chiameremo questi studi, con espressione atecnica, grammatiche, nel senso che tendono a individuare le regole di funzionamento di un certo sistema di segni. E' una grammatica la linguistica dell'italiano come lo studio dei linguaggi tambureggiati e fischiati presso una tribù primitiva, o lo studio dei diversi tipi di segnaletica fatto da Prieto. Qualsiasi teoria generale dei sistemi di segni che si ponesse come grammatica generale o universale, sarebbe una grammatica nella misura in cui, pur riducendo le proprie categorie ad alcune ascisse generali che si presumono presenti in ogni sistema di segni, tentasse di articolare queste categorie in un sovra-sistema che voglia rendere ragione del perché i vari sistemi di segni funzionano in un certo modo. 

In tal senso la filosofia del linguaggio assumerebbe come date le ricerche delle grammatiche; darebbe per definite le grammatiche e rifletterebbe piuttosto sull'uomo in quanto usa, costruisce o trasforma le grammatiche onde parlare dell'universo (nel senso massimale del termine, che può comprendere anche entità metafisiche che Carnap avrebbe espunto dal regno delle proposizioni dotate di senso). In tal senso problemi come quelli dell'origine del linguaggio (perché è una filosofia del linguaggio anche quella di Vico), o della valutazione del loro uso in termini vero-funzionali, sfuggirebbe alla presa delle grammatiche, e cadrebbero sotto l'egida di una filosofia del linguaggio. 

Se quella di Heidegger è una filosofia del linguaggio (e non si può negare che sia una riflessione filosofica sul linguaggio), essa costituisce l'esempio principe di una filosofia del linguaggio che ignora ogni problema grammaticale, e quando lo sfiora, almeno a livello etimologico, si permette licenze che avrebbero scandalizzato Isidoro di Siviglia. 

Per ragioni storiche la semiotica contemporanea sarebbe nata invece anzitutto come grammatica, vuoi come grammatica universale, vuoi come confederazione di grammatiche specifiche. E' indubbio che così sia avvenuto con la semiotica strutturale, lungo la linea che da Saussure e Hjelmslev va sino a Barthes – che ha tentato persino a una grammatica della moda in quanto descritta, o della cucina giapponese. Quella di Lévi-Strauss è una grammatica dei rapporti parentali, e per questo ha avuto tanta influenza sullo sviluppo della semiotica strutturale. Greimas nasce come lessicografo e fonda una grammatica persino troppo rigorosa della generazione di discorsi narrativi. 

Ma al di fuori del filone strutturalista, anche Peirce - se pure fonda sin dagli inizi la sua semiotica come discorso prettamente filosofico (elaborando la sua nuova lista di categorie, la critica del cartesianesimo e un abbozzo di teoria dell'inferenza), mette contemporaneamente in opera la costituzione di una grammatica di tutti i tipi di segni, almeno nella forma della sua classificazione tricotomica, ponendosi espressamente il problema di una grammatica e di una retorica speculativa. 

Peirce è tuttavia l'esempio di come la distinzione tra indagine filosofica e indagine grammaticale non sia così netta. Se si ricostruisce una storia della semiotica, come storia delle varie dottrine dei vari tipi di segni, è possibile separare un momento grammaticale da un momento filosofico in Aristotele o negli Stoici? Forse che gli Analitici primi sono una grammatica logica e gli Analitici secondi una riflessione filosofica sui modi della conoscenza? La grammatica universale dei modisti appartiene al momento dell'analisi grammaticale o alla riflessione filosofica sul ruolo ed essenza del linguaggio? Locke dà l'impressione di far della filosofia del linguaggio, ma Port Royal fa solo della grammatica? Chomsky fa evidentemente della grammatica ma la filosofia del linguaggio - cartesiana - che ne traiamo non è solo implicita, come sarebbe implicita una metafisica influente in una teoria dell'indagine scientifica, e costituisce il nucleo espresso e imprescindibile di tutta la sua impresa. Dove porremmo la grammatica formale di Montague? Le massime pragmatiche di Grice e la sistematica degli atti linguistici da Austin a Searle sono filosofia del linguaggio o grammatica - nel senso esteso del termine, per cui vanno investigate, descritte, e regolate anche le modalità di uso di un linguaggio naturale? 

Ritengo dunque che esistano delle semiotiche specifiche, che sono appunto quelle che ho chiamato grammatiche di un particolare sistema di segni e che Hjelmslev avrebbe chiamato, al plurale, semiotiche. Queste grammatiche potrebbero esistere e talora si sono sviluppate al di fuori di un quadro semiotico generale. Ma naturalmente risultano più interessanti quando tengono conto di questo quadro: talora la preoccupazione del quadro ha prevalso sulla specificità della ricerca, e si sono avuti negli anni sessanta tentativi abbastanza ingenui di estendere le categorie della linguistica a ogni sistema segnico; e questo avveniva perché si assegnava a una grammatica specifica, quella della lingua, il compito di divenire parametro di una semiotica generale. Ma un esempio equilibrato di elaborazione di grammatiche specifiche di sistemi semplici (le segnaletiche visive) mi pare quello di Prieto in Messages et signaux, dove si usa quale parametro provvisorio la nozione linguistica di articolazione, ma proprio per mostrare come i sistemi che egli esamina non obbediscono alle stesse regole dei linguaggi naturali. 

Quando è bene costruita una semiotica specifica raggiunge uno statuto scientifico, o vi si approssima, nella misura in cui questo è consentito nell'ambito delle scienze umane. Molte di queste grammatiche hanno sempre una componente descrittiva, talora una componente prescrittiva e in qualche misura una componente predittiva, almeno in senso statistico, in quanto dovrebbero essere in grado di prevedere come in circostanze normali l'utente di un dato sistema genererebbe o interpreterebbe messaggi emessi secondo le regole di quel sistema. 

A queste semiotiche specifiche si opporrebbe, nel senso che si sovraordinerebbe, una semiotica generale. Mentre le semiotiche specifiche trovano in qualche modo i propri oggetti come già dati (suoni, gesti, bandierine e così via), una semiotica generale pone il proprio oggetto come categoria filosofica. In tal senso quel concetto di segno, o di semiosi, che dovrebbe rendere ragione dei vari fenomeni individuati dalle semiotiche specifiche, è un concetto filosofico, un costrutto teorico. 

Certo è più facile riconoscere l'esistenza empirica di testi scritti in italiano (oggetto di una storia della letteratura o delle lingua italiana) o di specie animali, che non quella dei processi di semiosi, e per questo la semiotica fa più fatica a farsi riconoscere che non la storia della letteratura o la zoologia, ma è costato altrettanto sforzo costruire il concetto generale di atomo, che ha raggiunto peraltro uno statuto filosofico prima di ogni possibile verifica empirica. 

Pertanto, anche se una frase è diversa da un poema epico, e se il modo in cui percepiamo i segnali del Morse è diverso da quello con cui percepiamo la forma e le sfumature cromatiche di una nuvola, sosteniamo, esplicitamente o implicitamente, che in tutti i casi deve agire un meccanismo comune, per quanto disparati appaiano i suoi esiti superficiali: se è lo stesso apparato fisiopsicologico che ci mette in grado di capire la frase domani pioverà e la nuvola che annuncia una pioggia non ancora esperita, allora deve esserci qualcosa che permette di unificare questi due processi di apprendimento, elaborazione, previsione e dominio intorno a qualcosa che la semiosi non ci mette davanti agli occhi. 

Questa semiotica generale è una branca della filosofia, o meglio la filosofia intera in quanto impegnata a riflettere sul problema della semiosi. 

Ma se è così, in che cosa si distingue una semiotica generale dalla filosofia del linguaggio? Se sono da riconoscere come filosofie del linguaggio quelle di Quine, di Putnam, di Rorty, di Gadamer, di Heidegger, di Vattimo, di De Mauro o di Bonomi, allora la semiotica generale è filosofia del linguaggio la cui unica caratteristica distintiva sarebbe quella di essere ritenuta migliore delle altre da coloro che la praticano - se non fosse che lo stesso privilegio caratterizza ciascuna delle altre. 

Tuttavia credo che si possa individuare due tratti che distinguono l'impresa semiotica da quella di altre filosofie del linguaggio. Essi sono (i) la decisione di generalizzare le proprie categorie in modo da portarle e definire non solo le lingue naturali o i linguaggi formalizzati, ma ogni forma espressiva, anche le meno grammaticalizzabili, anche i processi aurorali di grammaticalizzazione, anche le operazioni di sgrammmaticalizzazione di un linguaggio dato, anche i fenomeni che non appaiono intenzionalmente prodotti a fini espressivi ma che si pongono all'origine di una inferenza interpretativa; (ii) l'esigenza, la vocazione costante di trarre le proprie generalizzazioni dall'esperienza delle grammatiche, al punto tale che la riflessione filosofica s'intreccia strettamente con la descrizione grammaticale. 

3. La semiotica come dipartimento

In questa impresa la semiotica corre ovviamente dei rischi. Nella voce "Semiotica" stesa negli anni settanta per l'Enciclopedia Europea di Garzanti, Raffaele Simone, dopo aver correttamente ricostruito la storia e i problemi della disciplina, citava lo sterminato allargamento del campo semiotico da Saussure ai giorni nostri, dalla letteratura e la logica alla comunicazione animale e alla psicologia, "fino a proporsi come scienza generale della cultura" e commentava: "In questo spropositato ampliarsi del suo orizzonte stanno le ragioni della sua diffusione ma anche i germi del suo scacco: se tutta la cultura è segno, una scienza unica che studi (con gli stessi concetti e gli stessi metodi) tutto, è forse troppo e troppo poco: più conveniente sarà allora tornare a una varietà di discipline a se stanti, ciascuna per un ambito di indagine, anche se arricchite dalla consapevolezza del carattere semiotico del loro oggetto."

Ci sono in questo passaggio molte cose su cui riflettere. Eliminerei, per nostra comune tranquillità, la parola “scacco”, sostituendola con “crisi” (e le crisi possono essere anche di crescenza) e di questa crisi vorrei riflettere sui “germi”. 

Nel delineare questi germi, Simone è stato ottimista. Lo è stato sia riducendo l'elenco dei campi che la semiotica ha invaso, sia accusando la semiotica di proporsi come scienza generale della cultura. In effetti, e basta consultare le bibliografie, la semiotica sta ormai facendo ben di peggio e tende a presentarsi come scienza generale della natura. Essa non ha potuto evitare il passaggio, esplicito in Peirce, da una teoria del segno a una teoria generale dell'inferenza, e da questa a uno studio non solo dei processi di significazione e comunicazione ma anche dei processi percettivi. La semiotica oggi tende a fare della percezione un aspetto (fondante) della semiosi. D'altro canto, se dobbiamo prendere come esempio di ricerca semiotica tutti gli studi che portano la parola semiotica nel titolo o appaiano su riviste intitolate alla semiotica, la ricerca si è estesa al mondo naturale, dalla zoosemiotica allo sviluppo di una fitosemiotica (che mi vede molto perplesso, ma che ha elaborato i propri titoli), all'interesse degli immunologi per la semiosi cellulare, allo stretto intrico tra scienze del cervello, intelligenza artificiale e semiotica. Nel 1975, nel Trattato di semiotica generale, io ponevo tutti questi aspetti oltre una soglia tabù che denominavo "soglia inferiore della semiotica". Ma si può decidere di non occuparsi ex professo di una serie di problemi, senza dire per questo che i problemi non esistono. 

Simone suggeriva che sarebbe stato più conveniente allora "tornare a una varietà di discipline a sé stanti, ciascuna per un ambito di indagine, anche se arricchite dalla consapevolezza del carattere semiotico del loro oggetto." Debbo dire che mi sento abbastanza incline a sottoscrivere questa prospettiva. Sono convinto che la semiotica non esista come disciplina scientifica. Esistono tante semiotiche specifiche, e spesso lo stesso oggetto specifico dà origine a teorizzazioni e a grammatiche diverse. Per parlare in termini accademici, Semiotica non è il nome di una disciplina bensì il nome di un dipartimento, o di una facoltà. Così come non esiste una disciplina, ma una facoltà intitolata alla medicina. La medicina era una disciplina unitaria quando era o galenica o paracelsiana, e quindi quando era ancora a uno stadio infantile. Oggi l'oggetto comune delle scienze mediche è il corpo umano, e i metodi e gli approcci - così come le specializzazioni - sono in perpetuo divenire, e in ogni caso comprendono settori scientifici e pratiche così diversi come la dietetica e la chirurgia, la neurofisiologia e l’ortopedia. 

Se andate a visitare una delle librerie scientificamente meglio attrezzate intorno alla Harvard University, lo Harvard Bookstore, vedrete che dal almeno dieci anni ha ristrutturato i propri scaffali. In molte librerie americane le opere di semiotica vanno di solito negli scaffali più curiosi. Raramente con la linguistica, spesso con la critica letteraria, talora in un settore che prima si chiamava “structuralism” e oggi, come da Barnes and Noble a New York, “post structuralism”. Ma a Harvard c'è un unico settore, molto ampio, che comprende Intelligenza Artificiale, scienze del cervello, logica e filosofia analitica, psicologia della percezione, linguistica e semiotica, e si intitola alle Scienze Cognitive. 

Nessuno ha mai asserito, negli Stati Uniti, che le scienze cognitive siano una scienza o una disciplina e tutti concordano nel ritenerlo una sorta di aggregazione interdisciplinare con un nucleo comune. Non mi dispiace che la semiotica sia stata posta in quella confederazione, anche se c'è chi discutendo se la semiotica sia una scienza cognitiva o le scienze cognitive siano una branca della semiotica. Si potrebbe persino affermare che la semiosi diventa un concetto centrale del paradigma scientifico contemporaneo, come poteva esserlo per altri paradigmi il concetto di natura o la diade res extensa-res cogitans, e allora certamente ogni disciplina sarà ispirata a concetti semiotici, senza per questo essere una semiotica – così come per la filosofia del nostro secolo si è parlato di linguistic turn

Ma perché si possa dire questo occorre pur sempre che vi sia un discorso, che io continuo a chiamare di semiotica generale, che discuta sino a qual punto vi sia un oggetto (sia pure esso un genus generalissimum) comune a tutte queste discipline, e quali siano le condizioni della sua costruzione teorica. Deve esserci una semiotica generale proprio perché non c'è una semiotica come scienza unificata. 

A questo punto la domanda é: in che senso questa semiotica si differenzia dalla filosofia del linguaggio? La filosofia del linguaggio sfugge allo scacco o alla crisi che Simone riconosceva nell'impresa semiotica? 

4. Differenze tra Semiotica e Filosofia del Linguaggio 

Se dunque questa unità di campo potenzialmente esiste, pur tuttavia credo possa essere tracciata una linea di demarcazione tra studi semiotici e studi di filosofia del linguaggio. Intenderei la linea di demarcazione come la soglia da cui si diramano due tendenze opposte, tali che ciascuno dei due orientamenti potrebbe trarre stimoli e suggerimenti dall'altro - e in parte ritengo che questo avvenga già in molti casi. In tal senso ciascuno dei due orientamenti dovrebbe fare i conti con i propri vizi d'origine e le fonti d'energia originarie, senza per questo chiudersi alla sollecitazioni che vengono dall'altra parte. 

La semiotica di derivazione linguistico strutturale ha sofferto a lungo di due restrizioni. Dell'una si è già detto, ed è stata la stretta dipendenza da una grammatica specifica, quella linguistica. La seconda è l'attenzione alle "lingue" (fossero esse verbali o no) come sistemi. Certamente questo è stato anche un punto di forza, a cui potrebbero rifarsi utilmente anche studiosi di diversa provenienza - e qualche anno fa mi è accaduto di consigliare Thomas Khun, che sentiva alcuni problemi concernenti la incommensurabilità e comparabilità tra paradigmi, di esplorare un poco le linguistiche strutturali - cosa che poi lui mi ha detto di aver fatto, e se ne sente traccia in alcuni capitolo di un suo prossimo lavoro, sul quale debbo tacere a causa dei rigorosi copyright che ogni studioso anglosassone pone per iscritto su ogni versione provvisoria della propria opera. 

Ritengo che spesso la filosofia del linguaggio di origine analitica, nell'esercitarsi su enunciati e sulle loro condizioni di verità, o di uso, perda di vista il fatto che a legittimare questi enunciati c'è un sistema. D'altra parte questo vizio potrebbe essere rimproverato anche alla semiotica peirciana. Se nel mio lavoro ho fatto qualcosa, è stato di cercare di mettere d'accordo queste due istanze - a rischio di non pochi peccati di sincretismo. Tuttavia ammetto che l'attenzione esasperata al momento del sistema poteva distogliere dai fenomeni di processo. Non è vero del tutto, perché anche i filosofi analitici potrebbero leggersi o rileggersi con gran profitto gli scritti di un linguista come Benveniste sui processi di enunciazione. 

Tuttavia, a voler generalizzare, le semiotiche di origine strutturalista analizzavano di preferenza (anche a livello semantico) sistemi di termini, mentre i filosofi del linguaggio di derivazione analitica analizzavano enunciati. Tra gli strutturalisti d'origine, mi pare che il primo che in Italia abbia deciso che l'unità significativa non è il termine ma l'enunciato, sia proprio De Mauro. Ma è inutile nascondersi che da un lato c'è una tradizione che si chiede se faccia parte del termine cane il tratto ANIMALE, e dall'altro quella per cui il problema è se sia vero che i cani sono animali. Credo sia venuto il momento di superare questa apparente differenza d'approccio, ma non mi limito a invitare gli analitici a fare un esame di coscienza e lo estendo anche ai lessicografi di origine strutturalista. 

Sono convinto che la semiotica strutturale abbia ceduto alla fascinazione (giusta) della pragmatica solo perché essa si era introdotta attraverso la tematica degli atti linguistici nel dominio della filosofia del linguaggio di origine analitica. In ogni caso non possiamo negare a Morris la paternità di tale termine, credo, e con Morris (uomo da rivalutare ampiamente da entrambe le parti, e sia detto in ricordo dell'amico Rossi-Landi) siamo piuttosto sul versante Peirce+Enciclopedia della Scienza Unificata, che su quello strutturalista. Ma debbo dire che è merito dei semiotici aver tentato subito di fare i conti con la pragmatica, mostrando molta ricettività ai problemi inizialmente extra moenia

Non so più se attribuire alla parte dei filosofi del linguaggio o a quella dei grammatici, e quindi dei primi semiotici, l'attenzione alle grammatiche casuali, ma è certo che la decisione di risolvere il composizionalismo in una case grammar ha le sue origini (dico in termini cronologici e di diritto, se non in termini di influenza diretta) nella linguistica di Tesnières, nella critica letteraria di Kenneth Burke, e nella semantica attanziale, nella linguistica testuale, nella narratologia. Se si debbono criticare i semiologi che costruiscono opposizioni sia di sistema che di processo, ignorando la vicenda degli enunciati nel flusso concreto del parlare quotidiano, bisognerà rimproverare ad altri di continuare a considerare enunciati del parlare comune delle finzioni di laboratorio (così che non si sa più se il re di Francia sia scapolo e se la stella della sera sia calva), non arrivando mai a provarsi sulle complessità dei testi - non foss'altro, per iniziare, che testi espressi in linguaggi naturali verbali. 

Il campo semiotico è pieno di avventurieri della formula, che chiamano formalizzazione la decisione di usare sigle invece che parole, per comodità schematica, e senza alcuna regola di calcolo; ma molti filosofi del linguaggio per amore di formalizzazione restano sempre al di qua della reale esperienza discorsiva. 

E' da lamentare che Greimas abbia costruito una intera teoria delle modalità ignorando l'intera logica modale nel suo complesso, ma è egualmente lamentabile che molti teorici insulari degli atti linguistici ignorino Bühler o le funzioni del linguaggio di Jakobson. 

Molta semiotica, per reagire a certi eccessi vero-funzionalistici, ha iniziato espungendo dal proprio ambito il problema del riferimento. E' stata forse l'insistenza quasi esclusiva di molta filosofia del linguaggio a richiamare anche la semiotica all'esigenza di esprimere una propria teoria del riferimento, specie quando si è accorti che, espungendo il problema banale del riferimento, si sono incoraggiate derive decostruzionistiche che ormai inducono a credere che il linguaggio parli sempre e solo esclusivamente delle proprie impossibilità - identificando questa castrazione con la sua forza. Credo che sia giusto, anche per chi fa grammatica formale, soggiacere ogni tanto all'angoscia dell'essere che si dilegua, o al dubbio che non esista significato trascendentale; purché gli altri si accorgano che molte volte, sulla verità e la verificabilità dell'asserto oggi fa tempesta, si può giocare la nostra vita, almeno se siamo su un aereo che decolla. 

C'è un libro che sin dalla sua prima apparizione mi è sembrato colmare un primo iato tra tematiche della filosofia del linguaggio e tematiche semiotiche, e mi riferisco al Languages of art di Nelson Goodman. Il merito del libro non è solo quello, più evidente, di aver impiegato l'esperienza di un filosofo del linguaggio, da sempre inteso ad analizzare enunciati verbali, per cercare di legittimare l'esistenza di linguaggi visivi. E' piuttosto il tentativo di costruire categorie semiotiche adeguate là dove le categorie logiche e linguistiche non davano ragione di alcune differenze fondamentali. E penso alle pagine sui campioni e le esemplificazioni, o sulla differenza tra arti autografiche ed arti allografiche. Goodman sta per costruire una semiotica del visivo. 

Eppure tutto il libro è attraversato da un impaccio costante quando si interroga sul carattere rappresentazionale delle immagini, perché non riesce a liberarsi da una tematica della denotazione e a interrogarsi sui clusters di significati che un'opera visiva può comunicarci al di là del fatto che denoti o meno qualcosa. 

Quando Goodman si domanda se un quadro di tonalità grigia che rappresenta un paesaggio, e che certamente denota un paesaggio, denoti la proprietà della grigezza o sia denotato dal predicato "grigio" non dice nulla sul significato che il colore grigio di quel quadro può assumere per chi lo guarda; cerca soltanto di rendere un fenomeno di comunicazione visiva catturabile in termini linguistici, e quindi rinuncia a fare una semiotica del visivo. Quando si domanda se un oggetto rosso esemplifichi la proprietà della rossezza (nel qual caso sorgono imbarazzanti questioni se esso esemplifichi anche altre proprietà coestensive alla prima, come trilateralità e triangolarità) o esemplifichi il predicato "rosso" (nel qual caso sorge il problema se esemplifichi il predicato "rouge" per un francese), o se esemplifichi il denotato di quello stesso predicato - non ci dice nulla sulla funzione significante che (poniamo) nel corso di un film un oggetto rosso acquista per chi ha assistito qualche istante prima in una scena sanguinosa. E chiedersi che cosa esemplifichi il rosso di una paramento sacerdotale non ha nulla a che vedere con il significato emblematico - non del tutto o non sempre verbalizzabile - che questo colore assume nel sistema semiotico della liturgia. 

In uno dei capitoli certamente più interessanti, quello sulla denotazione delle immagini, Goodman conduce sottili distinzioni tra una man-picture e la picture of a man, e si pone molteplici problemi circa le modalità denotative di un quadro che rappresenti insieme il Duca e la Duchessa di Wellington. Esso allo stesso tempo denoterebbe la coppia, parzialmente denoterebbe il duca, sarebbe nel suo insieme una two-person-picture e in parte una man-picture, ma non rappresenterebbe il Duca come due persone, e così via. Curiosa e anche divertente serie di questioni che sorge solo se si intende il quadro come l'equivalente di una serie di enunciati, e cioè si rende il visivo parassita del verbale. La verità è che chi guarda il ritratto non pensa quasi mai a questi problemi (se non nel caso estremo in cui il quadro venga usato o a fini segnaletici, come la foto di un passaporto, o a fini storico-documentari) e tuttavia, o più sovente, ne trae dei significati. 

Sono andato a cercare quasi a caso tra alcuni studi semiotici sul ritratto, e ho trovato (cito dal saggio di Omar Calabrese, "La sintassi della vertigine. Sguardi, specchi e ritratti", VS 29, 1981) che le categorie messe in gioco, al di là della problematica della rassomiglianza, sono per esempio opposizioni concernenti il taglio dell'inquadratura, la posizione delle mani, rapporto tra figura e spazio-sfondo, direzione dello sguardo, e di conseguenza il rapporto tra un ritratto che mostra di saper di essere guardato dallo spettatore e un altro in cui il personaggio guarda qualcosa ma non guarda lo spettatore, e così via. 

Se dovessimo trovare una analogia con problemi linguistici dovremmo rifarci al problema dell'aspettualità. Nessuno negherebbe che Giovanni esce di casa, Giovanni usciva di casa, Giovanni uscì di casa, Giovanni stava uscendo di casa, certamente esprimono o significano cose diverse e non sono certamente enunciati diversi riconducibili alla stessa proposizione, a meno che la nostra semiotica non privilegi una mera nomenclatura negando che le forme verbali contribuiscano alla costruzione del significato di un enunciato. Per ritrovare fenomeni analoghi in un'opera visiva, ma non trattabili allo stesso modo di un enunciato verbale, occorre elaborare categorie proprie a quella modalità di rappresentazione senza compiere il corto circuito della verbalizzazione del soggetto del quadro. Sia chiaro che non sto delineando una differenza tra funzione semantica e funzione estetica del quadro: sto dicendo che o si colgono le modalità semantiche dell'enunciato visivo, o ci si riduce a negare al visivo in quanto tale la capacità di comunicare significati – così negando che esistano significati non immediatamente interpretabili in termini linguistici. 

Ripeto: il libro di Goodman rappresenta uno degli sforzi più interessanti per gettare un ponte tra teoria del riferimento e teoria della rappresentazione visiva. Ma soffre della eccessiva consuetudine della filosofia del linguaggio e con le lingue naturali e con un approccio vero-funzionale. Con pari severità sono disposto a criticare tutti quegli approcci semiotici che tendono a dimenticare che, se non altro in termini sociologici, un ritratto viene dipinto anche per parlare di qualche aspetto del mondo.
6. Semiotica generale rivisitata: l'indicalità 

Faccio un esempio, che in questo periodo mi sta particolarmente a cuore. Uno dei fenomeni semiosici che ha sempre imbarazzato i sostenitori di una semiotica non unicamente referenziale è stato il problema degli indici. Tutti gli altri tipi di segno sembrano rinviare a qualcosa che normalmente non è presente, e richiedono quindi la mediazione di un significato, mentre gli indici paiono funzionare solo in connessione con la cosa indicata. 

Io, più forse di altri, ho tentato di svincolare gli indici da questa connessione necessaria con il referente. Nel Trattato di semiotica generale ho cercato di mostrare che, affinché noi comprendiamo come usare i deittici (sia quelli verbali come questo o quello sia quelli fisici come il dito o la bacchetta puntata) occorre che il significante sia già correlato in linea di principio con un suo significato indipendente dal contesto. Capisco che cosa indica un questo anaforico perchè il suo significato non cotestuale è "l'ultima porzione contestualmente rilevante del contenuto precedentemente veicolato", e capisco un dito puntato (mentre non capisco il segno indicale usato da altre civiltà) perchè so che esso postula come presente un oggetto posto il direzione del proprio apice - tanto che se io punto un dito sul nulla il mio interlocutore si affanna ad individuare l'oggetto al quale il mio indice in qualche modo rinvia, anche in assenza del referente a cui dovrebbe essere connesso. Non è che l'indice acquisti significato a causa della prossimità e presenza del referente, è il referente che può essere indicato perchè l'indice, che appartiene a un sistema di deittici, è fornito in astratto di un proprio significato non contestuale. 

Con tutto ciò non si può evitare di rimanere affascinati dal mistero dell'atto indicale. E' atto indicale quello attraverso la quale la mamma risponde al bambino che chiede il significato della parola mela e sembra che esso preceda ogni convenzione semiotica, tanto che, con alcuni rischi ben noti in letteratura, può essere usato anche da due persone che ignorano l'una la lingua dell'altro, per tentare avventurosamente un processo di apprendimento e traduzione. 

E' vero che nell'apprendere per indicazione avvengono due fenomeni squisitamente semiotici: da un lato l'informato deve essere capace di assumere che il referente indicato stia per una classe più ampia di cui è membro - il bambino deve capire che la mela che la mamma gli indica diventa un segno per tutte le mele, assai diverse da quella, che egli dovrà riconoscere e nominare in futuro; dall'altro per comprendere che l'atto indicale punta su quell'oggetto devo aver appreso, o apprendere per tentativo ed errore nel corso della mia esperienza, che esso è appunto un atto indicale. E tuttavia l'atto dell'indicazione, con la sua fusione di suoni o gesti che urtano contro un oggetto del mondo, con la sua forza e la sua evidenza che ne rendono l'effetto e l'appello simile a quello dello stimolo, dell'onda olfattiva che colpisce le narici dell'animale e lo conduce ciecamente verso la preda, l'atto indicale, dicevo, è fenomeno di grande complessità che coinvolge fenomeni senso-motori, processi percettivi, un embrione di reazione passionale, e celebra il trionfo di una presenza che nessuna semiotica antireferenziale, comprese quelle che vedono la “differanza” a fondamento stesso di ogni fenomeno mentale, possono negare. 

Credo che possa esistere, come esiste, una semiotica specifica che studia la grammatica degli indici in una data cultura senza porsi come problema il primitivo psico-biologico dell'atto indicale. E credo che una semiotica filosofica debba riflettere sul mistero dell'atto indicale, ma debba nel contempo decidere che suo compito specifico è studiare come dal fenomeno originario dell'atto indicale nasca la pratica intenzionale dell'indicazione e l'articolazione dei sistemi di indici. Il fenomeno originario dell'atto indicale, di cui si può certo filosofare, è però competenza di qualche altra indagine cognitiva la quale deve spiegare come nel nostro cervello e nel nostro corpo stiano, iscritte nel nostro patrimonio genetico, le condizioni massimali dell'indicazione. Una filosofia dell'intenzionalità non ha gli stessi fini e lo stesso oggetto di una psicologia o di una neurofisiologia dell'attenzione, anche se nell'atto indicale si può individuare un fenomeno di attenzione che sfocia in una intenzione e si sviluppa in processo semiosico. Una filosofia della semiosi potrà certo domandarsi se ci sia un rapporto, in termini di funzionamento biologico, tra i nostri atti indicali, quelli delle api e i tropismi del girasole: ma quali essi siano è probabilmente il compito di altre scienze, e solo dopo che esse le abbiano messi in chiaro una semiotica generale potrà domandarsi se tutti questi fenomeni possano essere sussunti sotto il proprio concetto di semiosi. 

In altri termini, le semiotiche specifiche lavorano all'interno di limiti dove è riconoscibile un oggetto empirico, un certo insieme di segni, e ne delinea il sistema soggiacente. La semiotica generale si batte anche ai margini, ben sapendo che, essendo filosofia, può chiedersi perchè c'è dell'essere piuttosto che nulla, ma non delineare ipotesi pro o contro il Big Bang.

© Umberto Eco, 1994
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1. Conferenza data all’Università di Caracas nel luglio 1994.
2. Seymour Chatman, Umberto Eco, Jean-Marie Klinkenberg, A Semiotic Landscape - Panorama Sémiotique. The Hague, Mouton, 1979.