Zingaretti e Montalbano: se l’attore rimane imprigionato nel personaggio
Luca Zingaretti è ormai fatto della stessa sostanza di Montalbano. Mescolati e inscindibili, complementari e inseparabili, parallele sovrapposte, fusi e ormai confusi
di Renato Franco (corriere.it)
Il risultato di Montalbano è così eclatante che lascia quasi interdetti, praticamente la metà dei televisori accesi lunedì sera era sintonizzata su Rai1. E la spiegazione non si può nemmeno trovare nella qualità del prodotto che — pur essendo alta — non giustifica da sola un’attenzione e un’attesa così plenaria. La ricetta di Montalbano — un eroe positivo, i paesaggi da cartolina, il the end consolatorio — sembra quasi semplice ma non così facilmente replicabile, visto che nessuna fiction riesce a fare altrettanto. Luca Zingaretti ha provato a dare la sua interpretazione a un successo così plebiscitario: «Un prodotto che arriva dalla letteratura ha una marcia in più. La letteratura è un genere più alto della tv e Montalbano è un classico. Se ancora oggi andiamo a teatro a vedere Shakespeare è perché parla ai nostri cuori, ci regala emozioni». La verità è che questo commissario «trasuda di italianità, racconta chi siamo in un’epoca in cui è facile scimmiottare gli americani. I suoi sono gialli metafisici, e Sironi, da uomo di lettere, ha saputo trasporre questa metafisicità. Chiunque avrebbe snaturato Montalbano, lo avrebbe reso più veloce». L’elogio della lentezza.
Il regista Alberto Sironi c’è stato fin dall’inizio, 30 episodi fa: «Una sera Camilleri mi ha detto: “Voglio accompagnare Montalbano sull’orlo del baratro”. Queste ultime storie, così come le prossime, sono sempre più scure, più dure, più noir. La sua grande modernità nel sentire il mondo si riflette nei suoi libri e si riverbera nella fiction. All’inizio c’era chi era perplesso, chi pensava che fossero temi troppo forti. Ma in realtà sono storie più moderne, e lo dimostra che anche il pubblico più giovane è rimasto davanti al televisore». Zingaretti rischia di rimanere appeso al suo personaggio come un quadro? «Ormai Luca è un’icona, ha il problema che hanno molti attori quando interpretano un ruolo da cui poi è difficile staccarsi. Ma è un uomo colto è intelligente, fa teatro, il problema è semmai che il cinema italiano è troppo asfittico e intellettualistico, per niente epico, e non sa regalargli ruoli all’altezza. Per Il gladiatore lui sarebbe stato perfetto».
Se indubbiamente il personaggio inventato da Camilleri ha reso televisivamente immortale Zingaretti, è anche vero che quest’immortalità ha un suo contrappasso terreno. Zingaretti come attore può essere solo Montalbano perché in ogni altra interpretazione l’attore risulta inevitabilmente poco credibile. Troppo popolare orami, troppo riconoscibile, troppo famosa la sua testa lucida e il passo da cavallerizzo, con le sue gambe ad arco, protese verso le indagini. Se interpreta — come ha fatto — Borsellino ti pare di vedere Montalbano con i baffi. Se fa Olivetti è semplicemente Montalbano con un po’ di capelli. Se rivedi I giorni dell’abbandono (2005) il marito che lascia la moglie per una ragazza più giovane è Montalbano.
La simbiosi televisiva è nel destino di molti attori che hanno legato il loro volto a un personaggio fino a diventarne maschera. Un punto di non ritorno. Al di là del giubbotto di pelle e dei pollici alzati, Henry Winkler non può che essere Fonzie. Oltre ai baffi e alla camicia hawaiana, con o senza Ferrari, Tom Selleck è come se avesse sempre e solo interpretato Magnum P. I. La maglietta sotto la giacca di Armani rimarrà sempre appiccicata a Don Johnson, il Sonny Crockett di Miami Vice. Ellen Pompeo e Patrick Dempsey non smetteranno mai i camici bianchi di Grey’s Anatomy, così come Sarah Jessica Parker indosserà — qualunque ruolo le capiti — le Manolo Blahnik di Sex and the City. Attore e personaggio, non si distingue l’uno dall’altro, non si capisce dove finisce uno e inizia l’altro, mescolati e inscindibili, complementari e inseparabili, due parallele sovrapposte, fusi e ormai confusi. Ma in fondo il panorama — da una torre d’avorio — può non essere male.
Luca Zingaretti è ormai fatto della stessa sostanza di Montalbano. Mescolati e inscindibili, complementari e inseparabili, parallele sovrapposte, fusi e ormai confusi
di Renato Franco (corriere.it)
Incatenato al suo stesso personaggio, prigioniero del suo ruolo, schiavo in attesa di una liberazione che mai arriverà. Luca Zingaretti è ormai fatto della stessa sostanza di Montalbano. O viceversa. Meravigliosamente scolpito da Camilleri sulla pagina di carta, è diventato di carne e ossa senza uscirne sconfitto al confronto. Anzi esaltato da quel linguaggio letterario che raramente circola nelle vene televisive. Ora arriva un nuovo primato: e per una volta la parola record — spesso abusata in un mondo dove per farsi ascoltare bisogna alzare la voce, dilatare i sostantivi e ingrandire gli aggettivi — è quanto mai pertinente. Mai così tanto aveva fatto la fiction di Rai1: lunedì sera [13 marzo 2017] Il Commissario Montalbano è stato visto da 11 milioni 268 mila telespettatori, pari al 44,1% di share.
Il risultato di Montalbano è così eclatante che lascia quasi interdetti, praticamente la metà dei televisori accesi lunedì sera era sintonizzata su Rai1. E la spiegazione non si può nemmeno trovare nella qualità del prodotto che — pur essendo alta — non giustifica da sola un’attenzione e un’attesa così plenaria. La ricetta di Montalbano — un eroe positivo, i paesaggi da cartolina, il the end consolatorio — sembra quasi semplice ma non così facilmente replicabile, visto che nessuna fiction riesce a fare altrettanto. Luca Zingaretti ha provato a dare la sua interpretazione a un successo così plebiscitario: «Un prodotto che arriva dalla letteratura ha una marcia in più. La letteratura è un genere più alto della tv e Montalbano è un classico. Se ancora oggi andiamo a teatro a vedere Shakespeare è perché parla ai nostri cuori, ci regala emozioni». La verità è che questo commissario «trasuda di italianità, racconta chi siamo in un’epoca in cui è facile scimmiottare gli americani. I suoi sono gialli metafisici, e Sironi, da uomo di lettere, ha saputo trasporre questa metafisicità. Chiunque avrebbe snaturato Montalbano, lo avrebbe reso più veloce». L’elogio della lentezza.
Il regista Alberto Sironi c’è stato fin dall’inizio, 30 episodi fa: «Una sera Camilleri mi ha detto: “Voglio accompagnare Montalbano sull’orlo del baratro”. Queste ultime storie, così come le prossime, sono sempre più scure, più dure, più noir. La sua grande modernità nel sentire il mondo si riflette nei suoi libri e si riverbera nella fiction. All’inizio c’era chi era perplesso, chi pensava che fossero temi troppo forti. Ma in realtà sono storie più moderne, e lo dimostra che anche il pubblico più giovane è rimasto davanti al televisore». Zingaretti rischia di rimanere appeso al suo personaggio come un quadro? «Ormai Luca è un’icona, ha il problema che hanno molti attori quando interpretano un ruolo da cui poi è difficile staccarsi. Ma è un uomo colto è intelligente, fa teatro, il problema è semmai che il cinema italiano è troppo asfittico e intellettualistico, per niente epico, e non sa regalargli ruoli all’altezza. Per Il gladiatore lui sarebbe stato perfetto».
Se indubbiamente il personaggio inventato da Camilleri ha reso televisivamente immortale Zingaretti, è anche vero che quest’immortalità ha un suo contrappasso terreno. Zingaretti come attore può essere solo Montalbano perché in ogni altra interpretazione l’attore risulta inevitabilmente poco credibile. Troppo popolare orami, troppo riconoscibile, troppo famosa la sua testa lucida e il passo da cavallerizzo, con le sue gambe ad arco, protese verso le indagini. Se interpreta — come ha fatto — Borsellino ti pare di vedere Montalbano con i baffi. Se fa Olivetti è semplicemente Montalbano con un po’ di capelli. Se rivedi I giorni dell’abbandono (2005) il marito che lascia la moglie per una ragazza più giovane è Montalbano.
La simbiosi televisiva è nel destino di molti attori che hanno legato il loro volto a un personaggio fino a diventarne maschera. Un punto di non ritorno. Al di là del giubbotto di pelle e dei pollici alzati, Henry Winkler non può che essere Fonzie. Oltre ai baffi e alla camicia hawaiana, con o senza Ferrari, Tom Selleck è come se avesse sempre e solo interpretato Magnum P. I. La maglietta sotto la giacca di Armani rimarrà sempre appiccicata a Don Johnson, il Sonny Crockett di Miami Vice. Ellen Pompeo e Patrick Dempsey non smetteranno mai i camici bianchi di Grey’s Anatomy, così come Sarah Jessica Parker indosserà — qualunque ruolo le capiti — le Manolo Blahnik di Sex and the City. Attore e personaggio, non si distingue l’uno dall’altro, non si capisce dove finisce uno e inizia l’altro, mescolati e inscindibili, complementari e inseparabili, due parallele sovrapposte, fusi e ormai confusi. Ma in fondo il panorama — da una torre d’avorio — può non essere male.
Luca Zingaretti nell'episodio di Montalbano "Come voleva la prassi" |