לא עליך כל המלאכה לגמור, ולא אתה בן חורין ליבטל
Non sta a te completare l'opera, ma non sei libero di sottrartene!
—Rabbi Tarfon, II sec.
Lo scrittore ebreo nell'età post-illuminista (tardo XIX secolo) si ritrovava con una gamma di possibilità identificatrici. In quanto ebreo, si poteva identificare con il gruppo ebraico e rivolgersi ad una platea ebraica. In quanto operatore nell'ambito di un contesto di una data nazione ospitante, poteva provare ad integrarsi in quella specifica entità nazionale. Poteva usare lo yiddish o il polacco o il russo (il 90% degli ebrei si trovava nell'Europa orientale prima del 1880), a seconda delle circostanze della propria istruzione e ambiente. Tuttavia esisteva anche e sempre di più, un elemento di scelta; certamente non del tutto libero ed incirconscritto, ma crescente, con l'aumentata mobilità e accessibilità ad eventi mondiali. Tale elemento di marginalità, la possibilità di un'identificazione personale, la scelta di un pubblico e di una fedeltà culturale, non è sconosciuta agli scrittori di altre estrazioni, ma confrontava lo scrittore ebreo in particolare. Poteva semplicemente scrivere nella lingua della sua patria, rivolgendosi ai rispettivi lettori? Normalmente tale domanda non sorgeva tra scrittori non ebrei: esisteva infatti una coincidenza di lingua, cultura, affiliazione, nazione e religione. Poche erano le lingue emotivamente neutrali. Il polacco per esempio non solo era la lingua di una regione geografica, ma il mezzo di espressione di un gruppo represso e di forti aspirazioni indipendentistiche dopo le ripetute divisioni e soggiogazioni della Polonia nel tardo XVIII secolo e primo XIX secolo. Il russo era la lingua di una grande letteratura, ma anche di una cultura cristiana ed antisemita. Pure il tedesco ed il francese avevano le proprie tradizioni ed erano spesso associati con particolari ambizioni nazionali.[1]
Per l'ebreo non poteva quindi esserci una soluzione semplice, anche in questa primaria problematica della lingua. La lingua poteva di per se stessa costituire un'ideologia. Scrivere in una lingua non ebraica poteva implicare non solo un'associazione con un certo pubblico, ma anche una condivisione di comunità e destino. D'altra parte, la scelta di una lingua ebraica comportava diverse difficoltà. Il vernacolare ebraico predominante nell'Europa orientale era lo yiddish, ma questo aveva una tradizione letteraria ridotta e degli svantaggi relativi al mondo, cultura e futuro ebraici.[1] L'ebraico era considerato da molti la lingua ebraica par excellence, per la sua storia, la sua quintessenza ed universalità ebraiche, ed il suo potenziale (visto ideologicamente) se rivitalizzata. Esisteva però un pubblico molto ristretto per l'ebraico, e lo scrittore in ebraico, come qualsiasi altro scrittore, ha bisogno di lettori. Qui si cercherà di esaminare una serie di risposte a tali questioni, implicite o esplicite, date da alcuni scrittore ebrei dell'epoca.à Chiaramente, tali risposte saranno governate, in un certo qual modo, da fattori predeterminati, come per esempio la madrelingua e l'ambiente sociale, ma anche dall'ideologia (sebbene a volte non dichiarata). Queste risposte indicavano il modo in cui lo scrittore ebreo vedeva se stesso e la sua funzione, la sua società, il proprio futuro e quello del suo gruppo, e le proprie aspirazioni (e del suo gruppo).[2]
L'era post-illuminista aveva catapultato l'ebreo in un mondo di opzioni o, per lo meno, di tentazioni. Il suo posto non era più un dato fisso entro una cultura religiosa disposta rigidamente. Poteva quindi essere ebreo (in qualunque misura) e anche qualcosa d'altro, che fosse nazionale o internazionale, unitariamente culturale o interculturale. Si è affermato che l'estrazione ebraica abbia avuto notevoli ripercussioni in questa area post-religiosa. Per esempio, in merito all'arte per l'arte stessa, un critico ha scritto:
Sicuramente la Bibbia contiene grande letteratura, ma la molla dell'opera è appassionatamente religiosa piuttosto che estetica. La tradizione rabbinica aveva come suo oggetto il chiarimento del ruolo ebraico nell'osservanza dei comandamenti, in esplicazione dei testi "rivelati" e della funzione divina, e non il racconto di favole come tali. Stessa cosa accadeva per la direzione principale presa dalla letteratura medievale, che fosse "religiosa" o "secolare". Persino coloro che si spostavano dalla tradizione ne erano comunque condizionati, nell'ambito dei termini della retorica adottata. Poteva forse essere che il carattere metaestetico del condizionamento ebraico continuasse a controllare gli interessi dello scrittore ebreo e le sue aspirazioni inconsce nel mondo del secolarismo positivista moderno?[1]
Non esiste una risposta unica a tale domanda. Non solo esiste una molteplicità di personaggi coinvolti nella problematica, ma anche una disparità di sviluppi, di ipotesi circa la platea di lettori, la rispettiva cultura ed il linguaggio. Il grado di integrazione dell'ebreo era alquanto differente nella Parigi e Vienna fin-de-siècle, rispetto a quello di Ucraina e Lituania. Anche le condizioni stavano rapidamente cambiando, sia all'esterno con i nuovi nazionalismi, un proletariato sofferente e la crescita demografica; sia internamente, in termini di esposizione ebraica locale al mondo esterno, le sue aspirazioni, sia verso l'espressione religiosa (chassidismo, talmudismo, riforma, ecc.), verso l'integrazione (liberalismo, socialismo, capitalismo), sia verso il nazionalismo ebraico (bundismo, sionismo).[2] Se ne esaminano alcuni casi particolari qui appresso.
Shalom Yaakov Abromowitz, popolarmente noto come Mendeli Mocher Sefarim (1836-1917) ha la principale distinzione di essere conosciuto quale fondatore di due letterature moderne — quella yiddish e quella ebraica. Un compendio di letteratura yiddish afferma di lui che "non solo è rinomato quale grande e originale scrittore yiddish, ma anche come il primo grande artista in yiddish... ha infatti sollevato la letteratura yiddish dalle sue umili basi."[3] Il poeta H.N. Bialik, in due saggi che trattano della posizione di Mendeli nella rosa degli autori ebraici, scritti dopo l'uscita di un'edizione in tre volumi dell'opera di Mendeli nel 1912, scrive che, "quando si leggono gli scritti di Mendeli, si prova la sensazione costante di trovarsi davanti non solo all'opera di un artista, ma del 'primario', con tutta l'enfasi che tale parola possiede per noi ebrei (Mendeli ushloshet hakrakhim)".[4]Primario indica l'autorità inerente all'interpretazione classica, quella delle fonti primarie appunto, che nel rango della gerarchia tradizionale ebraica non solo è primaria cronologicamente, ma anche in importanza. Bialik inoltre asserisce che Mendeli da solo ha creato un nuovo standard linguistico, che è diventato lo strumento basilare della letteratura ebraica a partire da quel momento (yotzer hanusah).[5] Fino ad allora la lingua della letteratura ebraica moderna era stata una pastiche di citazioni di forme arcaiche. Mendeli, anche senza l'uso di un vernacolo corrente, aveva incorporato tutti gli strati della lingua, oltre all'aramaico e al sapore dello yiddish parlato, in un unico blocco integrato.
Lo status di Mendeli come fondatore di entrambe le letterature non è mai stato messo in dubbio.[2] Nato nella provincia di Minsk, si appropriò di due tradizioni linguistiche potenzialmente ebraiche e le trasformò affinché raggiungessero il suo pubblico. Chiaramente scrisse per lettori e di lettori ebrei, sia per divertimento che per una critica mordente. Una delle fonti che ci illustrano la sua estrazione è una sua breve dichiarazione autobiografica del 1889 (reshumoth letholdothay) dove discute le origini della sua ispirazione, il suo passato e alcuni dei suoi intenti letterari. Fino all'età di 13 anni, "non c'era nulla nel mio mondo eccetto la Legge ebraica, e non sapevo nulla a parte il Talmud".[6] Tuttavia, fu influenzato anche dall'ambiente naturale dei suoi luoghi: la natura gli fornì sempre sollievo e distensione, in contrasto con la povertà e le ristrettezze del suo paese. Tale contrasto lo galvanizzò nello scrivere, suggerendogli poi i contenuti ed i toni. Mendeli fu didattico nello spirito illuminista, cercando di ravvivare e migliorare; il suo primo impulso fu di utilizzare la "lingua sacra" nel raccontare le storie che lo affascinavano. Questa era dopotutto la "fonte d'Israele". Tuttavia, dopo alcune esperienze in tale vena, arrivò alla spiacevole ma ovvia conclusione che "la maggioranza dei [miei] lettori non conoscono questa lingua, ma parlano il tedesco-ebraico. Che scopo ha un autore di sudare così duramente, se poi non ottiene nulla?"[6] Bisogna avere un pubblico. E quindi, per raggiungere tale pubblico, dovette rivolgersi allo yiddish. Ma anche lì incontrò difficoltà:
L'ebraico era quindi sconosciuto e lo yiddish degradato. Per raggiungere i suoi lettori, Mendeli dal 1862 in poi si spostò consapevolmente verso lo yiddish, senza però abbandonare la sua prima preferenza (la prima edizione del romanzo in ebraico Haavoth vehabanim apparve nel 1866. In seguito, subito prima della succitata dichiarazione autobiografica, dal 1866 in poi ritornò alla scrittura ebraica.[7]
Questa terza fase — la sua seconda in ebraico — fu quella maggiormente apprezzata e lodata da Bialik. I suoi primi scritti in ebraico erano nella forma del primo "moderno", ristabilendo frasi già composte nel contesto di una narrativa contemporanea e adottando un tono quasi biblico ma senza il relativo impeto. Il successo del nuovo Mendeli si ritrovò invece nel suo incorporare le sue innovazioni yiddish nella forma dell'ebraico, creando una lingua alquanto differente, più flessibile e viva. La sua seconda fase ebraica consistette principalmente nel riproporre le sue opere yiddish in ebraico. In yiddish l'autore aveva adottato la persona narrante del "libraio" (mocher sefarim), da cui il suo soprannome appunto. Il libraio è spesso il narratore e uno dei personaggi principali delle sue storie. Come carattere itinerante, egli può osservare la scena in tutte le sue forme, in tutto il territorio della Zona di Residenza.[8] Questo processo di osservazione divenne la sua chiara direzione di scrittura, riportando non tanto la specificità del luogo, il relativo carattere e incidente, quanto il generico permenate questi aspetti. Mendeli annota in maniera accalorata in Sefer haqabtzanim (Libro degli accattoni, 1909): "tutto Israele è accattone", producendo una pesante caratterizzazione dell'ebraismo a lui contemporaneo.[6] La sua prima storia in ebraico alla nuova maniera — Beseter raam (1886) — introduceil lettore ebraico a "Kisalon" (letteralmente "Città degli Stolti"), che non riporta configurazioni individuali ma sembra una delle tante città ebraiche. "Questa Kisalon, con la quale apro la mia storia, è particolarmente importante in quanto ovunque vivano gli ebrei, così è chiamata... Kisalon è una città completamente ebrea in tutti i sensi. Non esiste rispetto per l'architettura, le sue case non si reggono e sono incolori. La bellezza e la grazia vengono considerate indegne e quindi senza nessun valore."[6] Aver adottato le sembianze di libraio permette a Mendeli di girare liberamente e generalizzare. E tale generalizzazione vien fatta sulla base di confronti, e con forte critica. L'autore fa parte, ma non proprio, della scena rappresentata. Ci appartiene culturalmente, eppure riesce ad osservare con distacco e demolire il suo bersaglio, molto nelle sue prime opere, un po' di meno in seguito.
Lo yiddish aveva la virtù di essere capito dalle masse ebree. L'ebraico era la lingua (sacra) adorata da tutti gli strati del popolo ebraico e in tutte le sue fasi storiche. L'autore, spostandosi spesso da una lingua all'altra, diviso tra lealtà e proposito, tentò di fonderle insieme e riuscì quindi a creare un nuovo pubblico.[7]
Se Mendeli creò uno strumento per cementare la collettività ebraica nella narrativa, il suo contemporaneo più giovane, Micha Josef Berdyczewski (1865-1921) si concentrò maggiormente sul singolo ebreo, particolarmente su quel tipo di ribelle che si spostava oltre i confini di un certo mondo ebraico alla ricerca di un panorama più vasto per soddisfare il proprio spirito ed intelletto. Nato a Medzibezh, in Podolia, dove la popolazione ebraica nel 1897 veniva registrata a 6040 abitanti, cioè il 73,9% del totale (a quel tempo Ucraina russa), passò la giovinezza a Dubow, Kiev, ma poi si trasferì fuori della Zona di Residenza, andando in Germania: a Breslau nel 1890 e a Berlino nel 1892. Trascorse il resto della sua vita quasi esclusivamente in Germania e Svizzera, scrivendo in yiddish e tedesco, sebbene in caratteri ebraici — produsse racconti, saggi e polemiche ricostruzioni di storia ebraica, proponendo un'antitesi all'ebraismo mainstream, secondo una tradizione clandestina che era stata, secondo lui, repressa del rabbinismo.[9]
Da sottolineare nella biografia di Berdyczewski il carattere sia tipico che unico della sua personalità artistica: tipico nel senso del tono letterario, ribelle contro le limitazioni del suo ambiente e sfondo culturale, pur tuttavia abbarbicato fermamente al cordone ombelicale della storia, destino e lingua ebraici.[10] Inusitato è comunque il suo scavare nella lingua ebraica (la maggioranza delle sue opere è in ebraico, tra cui circa 150 racconti) al di fuori dei centri tradizionali della cultura ebraica e del relativo pubblico. Tale situazione è certamente un suo importante soggetto, che si riscontra per esempio nel suo ciclo di racconti mihutz latehum ("oltre il confine"): qui il titolo riflette il tema trattato (la Zona di Residenza) ed il personaggio centrale somiglia molto all'autore — un giovane ebreo, povero, di forti aspirazioni intellettuali, insoddisfatto spiritualmente e insofferente, che si sposta dall'Europa orientale verso l'Occidente alla ricerca di istruzione, nuove verità e contatti personali.[9] Vuole penetrare questo affascinante mondo estraneo, fatto di università cristiane e belle ragazze senza complessi — tuttavia rimane sempre consapevole del grande divario, specie quando descrive la grande metropoli nel suo racconto Mahanayim ("I due campi"). Lo studente ebreo viene rappresentato come "sradicato", cioè fuori del suo ambiente naturale e trapiantato, sebbene di sua propria volontà, in terra straniera. Quasi senza successo. È simile ad un anacoreta "in questa dinamica città frizzante di vita", preso dai suoi pensieri e dalle sue immaginazioni. Ma nonostante questo distacco e sottomissione alle proprie ambizioni, egli desidera ancora esser parte della vita di cui è testimone e liberarsi della propria marginalità. Alla pista di pattinaggio, "tra i pattinatori, uomini e donne, non c'è nessuno che lo conosca. Per tutti egli è lo sconosciuto, l'estraneo." La sua situazione era stata differente, "era appartenuto totalmente al suo retaggio, osservandolo rigidamente. Ora però era uscito da questa sfera e cercato di cancellare ogni cosa lì acquisita, passando dal buio alla luce, dalla schiavitù alla libertà." Dal mondo dell'ebreo egli si era spostato al mondo dell'uomo, alla ricerca dell'universale. Ma riuscirà a trovarlo? Apparentemente "nulla era rimasto in lui del suo popolo, eppure ne era figlio. Il suo cervello era stato svuotato del suo retaggio, ma il suo cuore era ancora incagliato nella tomba dei suoi avi." La tragedia resta non tanto nell'attrazione preclusiva dei due mondi, quanto nella supposizione che egli non apparterrà mai completamente a nessuno dei due. Agogna la vita che osserva e la ragazza che l'ama ma, disgustato di se stesso, capisce che deve rinunciare ad entrambe alla ricerca di luoghi più fecondi, a Berlino. Ha perso la ragazza e se stesso.[9][11]
L'etichetta di "giovane" sembra aderisse permanentemente a Berdyczewski. Si era associato ad un'avanguardia che attaccava il conservativismo di Ahad-Haam (1856-1927) e cercava una base più ampia per una rinascente cultura ebraica: "Il locus è diventato per noi troppo stretto. È giunto il momento di trovare la nostra strada e percorrerla" (Hashiloah, 1, 1896). Voleva consentire la libera espressione a "tutte le nuove forze, volontà e valori che ci ribolliscono dentro". Ahad-Haam era invece cauto circa la lingua ebraica ed il suo uso, cercando di conservarla e svilupparla attraverso il gradualismo. Berdyczewski era un rivoluzionario, che cercava il cambiamento e il superamento del vecchio. Era sicuro che ci fosse ora un pubblico di lettori potenzialmente differente. Tuttavia le sue storie, di solito costruite come cronache, enfatizzano il peso e la forza del passato. Persino i personaggi principali non sono individui liberamente fluttuanti nel proprio spazio, bensì condizionati da genealogia e fato. Il racconto Kalonymos ve noomi ("Kalonymos e Naomi") per esempio tratta non solo dei due personaggi citati nel titolo, ma dei loro antenati e del loro destino. Sono affiatati e la loro unione dovrebbe formare una coppia ideale ma, come ne Dibbuk di Semën An-skij (1863-1920),[12] l'unione viene elusa. Quando poi avviene, è troppo tardi:[13] accade il disastro e l'unione ritardata non riesce a riparare il danno. Molte delle storie di Berdyczewski coinvolgono disastri irreparabili, con gli eroi di turno che sono giovani ebrei disillusi di estrazione tradizionale, che vengono affascinati da speculazioni proibite, allontanandosi quindi dalla tradizione e crteggiando il disastro. Il racconto assume la dimensione classica dell'evento specifico, incorporando la direzione di un Fato determinante. L'individuo è un elemento in un più vasto contesto ed in esso deve svolgere il suo ruolo limitato: il soggetto qui è l'ebreo caratteristico del fin-de-siècle, sradicato da una cultura, a disagio nel nuovo ambiente e senza una sua propria dimensione confortevole.
Mendeli e Berdyczewski erano nati e scrivevano in un contesto totalmente ebraico. Anche quando emergevano dalle rispettive piccole città, la loro estrazione influenzava e definiva la loro prospettiva ed il loro pensiero. Esistevano però altri scrittori ebrei nell'Impero Russo che erano, in una certa misura, assimilati culturalmente e la cui posizione era perciò a priori più ambigua. Vladimir Jabotinsky (1880-1940) nacque a Odessa, scrisse inizialmente in lingua russa e venne accettato dal mondo letterario come autore russo di talento. Tuttavia prese la decisione consapevole di voltare le spalle alla lingua russa, poiché la letteratura russa implicava un contesto russo, specificamente cristiano ortodosso e antisemita. Quando scelse un pubblico ebreo locale, la sua defezione venne considerata persino da Maxim Gorky una grande perdita per la letteratura russa.[14] In due saggi scritti originalmente in russo nel 1908 e 1909, Jabotinsky mette la posizione dell'ebreo nell'ambito della letteratura russa, ma anche incidentalmente definisce ciò che lo scrittore ebreo è.[15]
In un precedente scritto occasionale, Degli ebrei e della letteratura russa, Jabotinsky reagisce ad un dibattito ricorrente circa il ruolo dell'ebreo nella letteratura russa e afferma la sua convinzione sincera e brutale che l'ebreo non ha dato contributi significativi. E non ha dato tali contributi semplicemente perché non appartiene a quell'habitat. Distingue tra lealtà e amore, e dice che sebbene uno possa e debba essere leale verso il proprio luogo di residenza, uno può solo amare ciò che è veramente suo proprio. Una nazione quindi può pretendere la tua fedeltà ma non il tuo amore. Per estensione, lo stesso si applica alla cultura in generale e alla letteratura. Vi operi liberamente e creativamente solo se è tua prorpia. Qual'è la propria letteratura nazionale? Per Jabotinsky non è il medium linguistico che definisce il carattere nazionale di un'opera letteraria, e neanche le origini dello scrittore, né i suoi temi.
In altre parole, uno scrittore ebreo è colui che scrive in spirito ebraico per lettori ebrei. Jabotinsky è disposto ad usare qualsiasi lingua che l'ebreo possa comprendere, che sia il russo, lo yiddish o, come spera accada nella realizzazione delle aspirazioni nazionali ebraiche, l'ebraico. Ma egli è uno scrittore ebreo, poiché appartiene al mondo ebraico e vuole rimanerci. Si lasci pure che gli altri, che vogliono defezionare, si illudano di appartenere al mondo russo: pagheranno sulla propria pelle il prezzo di tale illusione.[15][16]
In un saggio successivo intitolato Al russo importa, Jabotinsky si rivolge specificamente all'immagine dell'ebreo nella letteratura russa. Gli ebrei ora (cioè nel 1909) si dichiarano sorpresi per lo sciovinismo dei russi. Avevano creduto che il russo, o, per lo meno, l'intellettuale russo fosse totalmente differente da altri nazionali e non potesse essere antisemita. Come se l'intellettuale russo, a differenza di controparti altrove, fosse necessariamente un internazionalista umanitario. Per quanto riguardava scovenienti fenomeni come i pogrom, questi venivano attribuiti ai contadini in basso e a reazionari bigotti al potere in alto. Tuttavia, argomenta Jabotinsky, ciò che succede nel territorio è caratteristico della nazione in generale e la letteratura russa, specie poiché appartiene così tanto al popolo, riecheggia aspirazioni e tendenze tipicamente russe.[17] Sebbene i russi possano esser permeati in principio della nozione di libertà, hanno tenuto in bassa stima i popoli sottomessi. Nello specifico, l'autore esamina il caso del grande scrittore Nikolai Gogol (1809-1952), del quale si celebrava il centenario della nascita. Celebrato anche dagli ebrei, sebbene questo scrittore avesse incitato pogrom contro di loro. Ma non è un fenomeno isolato, continua Jabotinsky: Pushkin, Turgenev, Dostoevsky, Chekhov — tutti hanno dato ritratti assurdamente negativi degli ebrei, che non appaiono mai in luce favorevole nei rispettivi scritti, che sia narrativa o saggistica. Non esiste un equivalente russo, dice Jabotinsky, di un Nathan il saggio[18] o di uno Shylock,[19] di empatia con tali figure di basso rango.[17]
Pertanto, sia come immagine nella letteratura russa sia egli stesso sulla relativa scena letteraria, l'ebreo aveva avuto un ruolo negativo o insignificante. Il che conduce Jabotinsky a rientrare in se stesso e successivamente nella direzione di un risurgente nazionalismo ebraico. Se l'ebreo è rifiutato dalla società ospitante, egli deve creare una società sua propria, per salvaguardare il rispetto di sé. E non semplicemente una sovrastruttura con incidentali caratteristiche sociali, culturali o religiose, bensì una società con la propria infrastruttura ed il proprio territorio, indipendente politicamente. Jabotinsky viene naturalemnte ricordato oggi soprattutto quale leader separatista del Revisionismo Sionista, massimalista nazionalista che vide la costituzione della Palestina come stato ebraico indipendente unica possibile salvezza degli ebrei nel clima minaccioso di quel tempo. L'unico suo romanzo, Sansone (1927), esprime obliquamente tale sorta di aspirazione. Sansone, come si conosce dalla storia biblica, fu un potente leader, forte e affascinante, sebbene non sia riuscito ad unificare il suo popolo in una vittoria contro i Filistei. Tuttavia, nel romanzo Sansone offre la sua opinione circa il successo dei Filistei:
I Filistei sono pochi, ma uniti e ben organizzati. L'organizzazione e l'ordine sono di importanza vitale per aver successo. Successivamente Sansone, in Filistea, quando osserva il potere del sacerdote, prova una sensazione illuminante:
Apprezza inoltre l'importanza delle risorse, specie quelle minerarie del metallo. Ciò ha un supporto biblico nella dichiarazione (1 Samuele 13:19) che "allora non si trovava un fabbro in tutto il paese d'Israele: «Perché - dicevano i Filistei - gli Ebrei non fabbrichino spade o lance»" (CEI). Nel romanzo, l'ultimo messaggio di Sansone al suo popolo è: "Prendetevi del ferro ed un re... e imparate a ridere." (ibid.) Jabotinsky si sposta dal dare una collocazione e funzione allo scrittore ebreo ai primi del secolo, verso una piattaforma politica che rivendica una sovranità ebraica nel Medio Oriente.[20]
Anche nell'Europa occidentale esisteva un senso d'identità ebraica o insoddisfazione sulle possibilità d'espressione ebraica. Naturalmente le circostanze erano però diverse. Non c'era una società ebraica definita in modo particolare, dopo la scomparsa dei ghetti imposti legalmente, della corrente illuministica e della Rivoluzione francese. Molti ebrei si erano spostati dall'oriente all'occidente, quando ciò era diventato possibile, alla ricerca di miglioramento ed istruzione, e logicamente avevano assorbito le caratteristiche delle società ospitanti, comprese le abitudini e le lingue. L'autore ebreo che scriveva in una lingua europea non poteva pertanto avere un pubblico specificamente ebreo nel senso dato da Jabotinsky (con l'eccezione limitata della stampa ebraica locale), o nel modo in cui avrebbe potuto se scriveva in yiddish o ebraico. Ciò nondimeno provava spesso un percepibile sentimento di differente lealtà o senso di identificazione. E a volte ciò gli veniva attribuito volente o nolente. Max Nordau (1849-1923) ne rappresenta un interessante esempio calzante. Successivamente rinomato come uno dei padri fondatori e portavoce del Movimento Sionista, Nordau si era già fatto un nome in qualità di medico e critico culturale ("il grande diagnosta").[21] I suoi libri degli anni 1880 e 1890 avevano avuto vasta diffusione, anche quando tale diffusione era stata soggetta a restrizioni come possibile fonte di pericolo per lo Stato.[22] Egli applica un apparato analitico alla civiltà contemporanea e afferma, ammassando forse assurdamente tutti i fenomini culturali e letterari, che è malata. Sintomatici sono Baudelaire, Ibsen e Wagner. La religione è una frode,[23] i ciarlatani imperversano, la monarchia è un'impostura.[22] Tutte queste privazioni di libertà vengono citate nel suo Die conventionellen Lügen der Kulturmenscheit (1883, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà) come minacce alla vera umanità. Sebbene possano essere curate, Nordau conclude in maniera favorevole:
Non c'è dubbio che qui, e in modo particolare in Entartung (1893, Degenerazione),[24] Nordau sia succube di distorsione, eccessiva semplificazione, troppo ottimismo (quando gli conviene) e persino una certa insipienza.[25] G.B. Shaw, nella sua recensione di Degenerazione intitolata "The sanity of Art" (Liberty, 27 luglio 1895) asserisce che Nordau non comprende come operano la poesia e l'arte: non comprende ciò che Ibsen vuole comunicare, i suoi principi morali e la sua critica, né cosa riesce a trasmettere la musica di Wagner. Il punto in questione non è comunque se Nordau ŏavesse ragione o meno. Ci si deve piuttosto chiedere dove si posizionava in relazione alla società e alla cultura contemporanee. E sia come critico che come sionista, la sue vedute erano cosa a parte: fu infatti un caso marginale, e ciò venne notato dai critici suoi contemporanei che commentarono le sue opere. Karl Bleibtrau,[26] per esempio, si chiede se Nordau fosse un francese, un tedesco o un ungherese. In verità "è nato in Ungheria, ha raramente visitato la Germania e ha risieduto a lungo a Parigi."[27] Questo è il punto. Nordau proveniva dell'Ungheria, andò in Austria e visse in Francia — e scrisse in tedesco. Non appartenne quindi a nessun luogo incondizionatamente.
In breve, lo si potrebbe categorizzare come "ebreo", una categoria che attraversa i confini culturali e politici. Tuttavia è un riconoscimento che diventerà sempre più centrale per questo tipo di scrittore marginale, medico e critico erudito. Fu di particolare importanza per Theodor Herzl (1860-1904) ed il Movimento Sionista, dal primo Congresso Sionista del 1897, sia come analista della situazione ebraica contemporanea sia come formulatore della bozza di programma. La sua analisi dell'ebraismo contemporaneo, come anche quella di Herzl, è interessante, poiché procede dall'Occidente, dove il progresso e l'emancipazione si erano consolidati da almeno un secolo. Non c'era, come si è già scritto, una comunità "orientale" di per sé, e ancora non erano avvenuti pogrom. Stranamente però, date le speranze progressiste, l'antisemitismo stava aumentando ed il forte impatto dell'aspettativa delusa si fece sentire più percettibilmente in Occidente. Nordau, nel suo famoso discorso al primo Congresso, disse: "Gli uomini del 1792 ci hanno emancipato solo per amor di principio",[27] cioè non era stata un'emancipazione sinceramente sentita e profonda, ma solo originata dalla logica del principio critico d'uguaglianza per tutti. L'ebreo allora cade dalla padella alla brace: "Ha perso la casa del ghetto, ma la sua terra natia gli è negata."[27] L'ebreo medievale poteva forse essere miserando, ma almeno aveva un posto definito, sia per se stesso che rispetto agli altri. Ora invece il quadro diventa uniformemente deprimente, sia materialmente che spiritualmente. C'è sofferenza materiale nell'Europa orientale, Nordafrica e Asia occidentale. E nell'Europa occidentale "la miseria è morale." L'emancipazione esiste per legge, ma non nel sentimento. Il sionismo viene visto come la risposta giusta in questo momento, con l'ascesa del nazionalismo in generale, l'aumento della coscienza politica, il fallimento dell'Emancipazione[28] e l'impossibilità e l'indesiderabilità di "metter indietro l'orologio".[27]
Si prenda ora in esame lo scrittore ebreo da un'altra prospettiva, sebbene in contesto simile. Il drammaturgo e romanziere Arthur Schnitzler (1862-1931) apparentemente non poteva certo soffrire di schizofrenia culturale. Nato, cresciuto e operante a Vienna, scrisse in tedesco e fu uno degli autori più rinomati del suo tempo e del suo ambiente, incarnando per molti quell'era e quel luogo.[29]
Schnitzler era un rappresentante alquanto tipico dell'ebraicità viennese, sia culturalmente che nelle origini. Sebbene fosse nato a Vienna, suo padre, inizialmente di cognome Zimmerman, era medico di successo e proveniva dall'Ungheria. Il grosso degli ebrei arrivò a Vienna in seguito a due fattori (sebbene ci fosse stato un contesto comunitario ebraico a Vienna a partire dal XII secolo): il primo fu la successiva divisione della Polonia nel tardo XIX secolo e quindi l'incorporazione della Galizia nell'Impero Asburgico. Il secondo fu la rivoluzione del 1848 che permise il libero movimento degli ebrei e quindi portò alle migrazioni verso Vienna di coloro che ambivano a migliorare la propria condizione sociale e culturale. Vienna era il centro politico, commerciale e culturale del grande Impero e fiorì notevolmente sotto Francesco Giuseppe. La comunità ebraica divenne tipica di molte nel mondo occidentale, abbracciando una copiosa varietà di pratiche e forte senso di identificazione, aumentando di numero ma assimilandosi considerevolmente ai margini. I decenni degli anni 1860 e 1870 furono noti per il loro liberalismo e Schnitzler si sofferma su questa atmosfera nelle sue memorie. Tuttavia annota anche l'antisemitismo prevalente e persino crescente dell'ultimo periodo, specialmente alla fine del secolo:
Di conseguenza, sebbene Schnitzler fosse cresciuto in una casa quasi totalmente priva di pratiche e osservanze ebraiche, fu molto consapevole della sua ebraicità, associata col sentimento antiebraico. Il suo barmitzvah fu celebrato senza rituale, ma venne comunque notato, anche se solo come un tredicesimo compleanno di una qualche maggiore importanza rispetto ad altri suoi genetliaci. Frequentò istruzione ebraica, sebbene durante la sua adolescenza si considerasse un ateo. Al momento di iscriversi alla facoltà di medicina, egli notò una preoccupante xenofobia. Il Comune di Vienna si dichiarò antisemita, con Karl Lueger, futuro sindaco, che adottò tale piattaforma più per opportunismo politico che per reale convinzione.[31] Gli ebrei dovevano controbattere. L'avrebbero fatto? "La questione era alquanto attuale all'epoca per noi giovani rampanti, specie per gli ebrei tra noi, poiché l'antisemitismo stava dilagando rapidamente nei circoli studenteschi. Le associazioni nazionali tedesche, chiamate Burschenschaften, avevano già cominciato ad espellere tutti gli ebrei e i discendenti di ebrei."[30] Schnitzler si trovò quindi ad osservare gli inizi del nazionalismo tedesco in Austria, che ebbe ebbe l'inaspettato effetto di creare un nazionalismo ebraico articolato ed organizzato.
Non dice granché d'altro su Herzl — ad eccezione di un successivo incontro fortuito in Inghilterra — né tantomeno sul movimento nazionale ebraico. Le sue associazioni, come annota egli stesso, furono principalmente con i "solidi circoli borghesi ebraici".[30]
Schnitzler scriveva in tedesco e raggiungeva lettori europei, ebrei e non ebrei. Altri scrittori ebraici erano combattuti dalle problematiche di una società ebraica stagnante o risorgente, dall'autoidentificazione, dalla possibilità di una vita ebraica esistenziale o sociale, dalla forma e dalla lingua che tale vita poteva assumere, nonché dal tipo di società appropriata in cui vivere e operare. Yosef Haim Brenner (1881-1921) cercò disperatamente di far rivivere l'ebraico e la possibilità di una Palestina ebraica. Originario dell'Ucraina, fu nell'esercito russo dal 1901 al 1904, passò successivamente alcuni anni a Londra dove pubblicò un giornale in ebraico, poi ritornò a Lvov e infine si traferì in Palestina, dove trascorse gli anni dal 1909 fino alla sua morte nei tumulti di Jaffa.[32]
Sin dalle sue prime pubblicazioni nel 1900, scrisse esclusivamente in ebraico, sviluppando uno stile volutamente grezzo, idiosincratico e confessionale.[33] Seguendo il suo eroe Berdyczewski, anche Brenner ambientò le sue storie mettendoci al centro personaggi sradicati, irrequieti e insoddisfatti. Fu comunque interessato soprattutto alla psicopatologia individuale dell'anima sofferta — concentrandosi non sulla trama o gli antecedenti storici, ma sul flusso di coscienza del personaggio sofferente, le sue lotte interiori, le sue aspirazioni e disperazioni — il tutto nell'ambito della situazione contestuale ebraica che avrebbe voluto trasformare completamente, come anche liberarsi della tradizione e impronta del passato. Cercava un rinascimento, ma non un grandioso rinascimento, solo un "piccolo rinascimento" che permettesse all'ebreo di vivere sulla sua terra e del suo lavoro.[32] La tragedia dei suoi personaggi (e di Brenner stesso, in verità) fu che erano destinati a fallire. Non potevano neppure ottenere il minimo e modesto successo del contadino medio, ma erano afflitti da malattie, dubbi, disastri erotici, esaurimenti nervosi, tragedie personali e mancanza di positivi contatti umani.[32]
L'esperienza palestinese naturalmente interessò Brenner sempre, particolarmente dal momento della sua emigrazione personale, in fluenzando i suoi scritti. Quindi è forse paradossale che in una "lettera" (saggio) del 1911 egli attacchi il "genere palestinese".[33] Quando gli viene chiesto se un suo nuovo racconto sia ambientato in Palestina, "mi sento prendere da un sentimento ironico, come se scrivere fosse quasi una faccenda esteriore e non un qualcosa di interno, una rivelazione di vita interiore in tutta la sua essenza dentro un particolare contesto." Ma la nuova società palestinese è comunque difficile da registrare in una sua propria letteratura, poiché è nuova e non si è ancora consolidata: "In quanto continuazione della diaspora, non è interessante. In quanto nuova, manca di stabilità e tipicità." La gente chiede infatti un revival in tutti i rispetti. Ma ciò non è letteratura. In quanto a lui stesso... "scrivo solo lettere dove riporto a chiunque ne sia interessato che tipo di impressioni ricevo e come passo i miei giorni nella Terra [d'Israele]."[33]
Ma questa è una sua posa letteraria. Infatti, proprio nell'anno in cui scrisse il saggio sul "genere palestinese", Brenner iniziò a scrivere in tale genere. Il suo racconto Atzabim (Nervi) venne pubblicato nello stesso anno (1911) ed è il suo primo con un'ambientazione palestinese.[33][34] Da una parte, l'autore cerca di non entusiarmarsi per la Terra (d'Israele), deprecandone l'esperienza e contrastandola con la più radicata vita vissuta dai veri europei. Denigra il modo in cui scriverebbe se fosse "uno di quelli" che parlano nella vena tipica delle "nostre colonie", in maniera enfatica ed euforizzante. Tuttavia, nonostante il suo rigetto della bellezza, Brenner scopre di amarla veramente — e si rifugia nell'ironia.[32]
Sono le vite che formano il contenuto degli scritti di Brenner, le vite dei suoi personaggi e la sua stessa, egli che è una figura della sua propria fantasia. Una sua opera precedente, Bahoref (1902, D'inverno), assume la forma di un'autobiografia ma, affinché il contenuto non sembri montato o glorificante, l'autore lo propone come anti-autobiografia di un non-eroe. Apre con un atto di scrittura: "Ho fatto un taccuino di carta bianca per scrivere alcune vignette e note della mia vita... La "mia vita" tra virgolette. Io non ho futuro o presente, soltanto passato... il mio passato non è quello di un eroe, perché non sono un eroe. Semplicemente un maestro di bambini nel villaggio. Ciò nondimeno, sebbene non sia un eroe, voglio scriver giù questo mio passato, il passato del mio non-eroismo."[33] L'autore ha perciò riassunto il proprio tema: il non-eroismo nella situazione ebraica a lui contemporanea, con tutta la disperazione e tutta l'aspirazione che ne conseguono. Ha apparentemente scelto un tema negativo da trattarsi negativamente, diretto a... chi? Non certo a quei pochi lettori in ebraico che si nutrono di classici e revival linguistici. Brenner contesta ogni ipotesi, religiosa, storica, culturale ed estetica. Il suo pubblico è quindi ristretto, nuovo, differente, pronto ad accettare la sua sfida. L'unica per lui possibile.[32]
Sin qui si sono esaminati differenti scrittori provenienti da diverse parti del mondo, di differenti estrazioni, che hanno scritto in lingue differenti esprimendo differenti presupposti. Il quadro che ne risulta non vuole però suggerire un tema o un approccio unificato. Questi sono scrittori ebrei che si ritagliano una letteratura dalla propria esperienza, a volte cambiando percorso, lingua, nazione, opinione e obiettivo: riflettono insomma un modello di vita ebraica reso articolato.[1]
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Note- Barry W. Holtz (cur.), Schocken Guide to Jewish Books: Where to Start Reading About Jewish History, Literature, Culture and Religion, Schocken Books, 1992, passim.
- Sheila E. Jelen, Michael P. Kramer, L. Scott Lerner (curatori), Modern Jewish Literatures: Intersections and Boundaries, University of Pennsylvania Press, 2010, pp. 43-52 e segg.
- Z. Rejzen, Lexicon für der Yiddisher litėratur, Vilna, 1926.
- Nel presente testo, ebraico e yiddish vengono traslitterati per facilitarne la trascrizione.
- H.M. Bialik, Kol Kitvey, 4 voll., Tel Aviv, 1939.
- Mendeli M. Sefarim, Kol Kitvey, Tel Aviv, 1947.
- Joel Entin, Di zaylen fun der nayer Idisher li era ur, 1923.
- Zona di residenza (Čerta osedlosti) era il termine dato alla regione dell'Impero Russo, lungo il suo confine occidentale, in cui gli ebrei avevano il permesso di risiedere in permanenza, e oltre la quale di solito la residenza era interdetta agli ebrei. Si stendeva dalla linea di demarcazione alla frontiera russa con l'Impero tedesco e l'Impero Austro-Ungarico.Da voce su Wikipedia
- M.J. Berdyczewski, Kol Kitvey, 2 voll., Tel Aviv, 1951, s.v..
- M.J. Berdichevsky, Ueber Den Zusammenhang Zwischen Ethik Und Aesthetik Von Micha Joseph Berdyczewski, Nabu Press, 2011.
- Sheila E. Jelen, Michael P. Kramer, L. Scott Lerner (curatori), Modern Jewish Literatures, cit., 2010, pp. 110-22.
- Shelomoh An-Skij, Dibbuk: sul confine di due mondi, leggenda drammatica in quattro atti, traduzione dal russo di Raissa Olkienizkaia-Naldi, Lanciano, Carabba Edit. Tip., 1930
- Nel Dibbuk l'unione della coppia è tribolata e la sposa viene infine posseduta dal dibbuk dell'amante lasciato. S. An-Skij, Dibbuk: sul confine di due mondi, cit.
- Walter Laqueur, A History of Zionism, Londra, 1972, s.v.
- Hillel Halkin, Jabotinsky: A Life (Jewish Lives), Yale University Press, 2014, pp. 146-155.
- Profeticamente, ciò avvenne in tutte quelle nazioni ove gli ebrei si consideravano integrati e parte del tessuto sociale, in particolar modo in Russia appunto e, orrificamente, in Germania. Cfr. int. al., R. Calabrese (cur.), Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche nella letteratura, ETS, 2005, ss.vv.
- Z. Jabotinsky, Kol Kitvey, VI vol., Tel Aviv, 1940.
- Dramma scritto dal tedesco Gotthold Ephraim Lessing e pubblicato nel 1779. Ambientato a Gerusalemme durante la terza crociata, il dramma descrive in che modo il saggio mercante ebreo Nathan, l'illuminato sultano Saladino e un inizialmente anonimo templare riescono a colmare il loro divario tra ebraismo, islamismo e cristianesimo.
- Personaggio ebreo de Il mercante di Venezia, opera teatrale di William Shakespeare.
- Yaacov Shavit, Jabotinsky and the Revisionist Movement 1925-1948, Routledge, 1988, pp. 34-40.
- Nordau ‹nò-›, Max in Treccani.it - Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011
- Anna & Maxa Nordau, Max Nordau: A Biography, Nordau Committee, 1943, passim.
- Famosa è la sua frase: "Dio è il nome che dall'inizio dei tempi fino ai giorni nostri gli uomini hanno dato alla loro ignoranza." (da Biologie der Ethik).
- M. Nordau, trad. it. Degenerazione, Piano B, 2009.
- Céline Kaiser , Rhetorik der Entartung: Max Nordau und die Sprache der Verletzung, Transcript Verlag, 2007, pp.17-23.
- K. Bleibtrau, Revolution der Literatur, 1886, Reprint 1973, Verlag Maiemeyer, ISBN 978-3-484-19022-1.
- Meir Ben-Horin, Max Nordau: Philosopher of Human Solidarity, London Jewish Society, Hillel Foundation:Londra, 1956.
- L‘Emancipazione degli ebrei fu un processo esterno ed interno che si sviluppò in varie nazioni e vide l'espansione dei diritti del popolo ebraico d'Europa, incluso il riconoscimento dei diritti di cittadini paritari, e l'assegnazione formale di cittadinanza ai singoli individui. Comprese l'impegno nell'ambito delle varie comunità di integrarsi nella società come cittadini. Occorse gradualmente a partire dal XVIII secolo fino al XX secolo. L'emancipazione ebraica fece seguito all'Età dell'Illuminismo e alla concomitante Haskalah (Illuminismo ebraico). Varie nazioni abrogarono o sostituirono precedenti leggi discriminatorie applicate in particolare contro ebrei nei loro luoghi di residenza. Cfr. Wikipedia, s.v. "Emancipazione ebraica" e rispettive note bibliografiche, in partic. Eli Barnavi, "Jewish Emancipation in Western Europe", My Jewish Learning.
- Per approfondimenti su Schnitzler ed il suo atteggiamento nei confronti dell'ebraismo, si veda Fausto Cercignani, Il fine secolo viennese. Arthur Schnitzler, Richard Beer-Hofmann e Karl Kraus, in Studia austriaca – “Sprach-Wunder”. Il contributo ebraico alla letteratura austriaca, Milano, CUEM, 2003, pp. 33-49.
- Si consultino i suoi Diari e Lettere, trad. G. Farese, Collana Le Comete, Feltrinelli ISBN 8807530163; (a cura di T. Nickl e H. Schnitzler), Giovinezza a Vienna. Autobiografia, trad. A. Di Donna, Collana Testi e Documenti n. 18, Editore ES, 2007. ISBN 8877106948
- Léon Poliakov, The History of Anti-Semitism, University of Pennsylvania Press, 2003, p.24. ISBN 0-8122-1863-9
- Anita Shapira, Yosef Haim Brenner: A Life (Stanford Studies in Jewish History and Culture), Stanford University Press, 2015, Introd.
- Y.H. Brenner, Kol Kitvey, 3 voll., Tel Aviv, 1957.
- Vedi anche Y.H. Brenner, Breakdown and Bereavement, Toby Press, 2003. Anche in questo romanzo, Brenner esprime l'ansia dell'"ebreo errante" in cerca di una patria spirituale. Il tentativo disperato del personaggio principale di costruirsi una nuova vita in Palestina viene a simboleggiare l'intera impresa sionista: più che un ritratto d'epoca, il romanzo è la storia universale della condizione umana (introduz. del trad. Hillel Halkin).