...o la ricerca di significato?
La psicologia popolare, pertanto, è strutturata sulla base delle proprietà della narrazione:
- La sequenzialità: ogni narrazione è composta da una sequenza di avvenimenti e di stati mentali; ogni componente acquista significato in ragione della sua collocazione all’interno della sequenza complessiva, ossia la trama.
- L’indifferenza ai fatti: la narrazione può essere reale o immaginaria, vi è una relazione anomala tra il senso ed il riferimento esterno e la trama generale è determinata dalla sequenza delle frasi piuttosto che dalla verità o falsità di esse.
- La gestione dell’eccezionale in rapporto all’ordinario: pur prendendo in esame ciò che nell’uomo vi è di usuale e di prevedibile e apportandovi legittimità, ogni narrazione possiede strumenti per rendere comprensibile lo straordinario e l’insolito; ogni cultura possiede un insieme di procedure interpretative per assegnare significato agli scostamenti dalle norme.
Lo psicologo americano Jerome Bruner afferma: “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico” [1].
Ogni racconto è composto da cinque elementi: l’attore, l’azione, lo scopo, la scena, lo strumento; tra i cinque elementi è inserito un problema la cui funzione è di creare uno squilibrio che possa poi essere risolto o quantomeno spiegato da un punto di vista morale [2].
La narrazione consente la strutturazione dell’esperienza, una strutturazione che è sociale, finalizzata alla condivisione del ricordo all’interno di una cultura e orientata a fornire ad un gruppo una guida relativamente ai suoi rapporti con gli accadimenti esterni.
Essendo la psicologia popolare un importante fattore di mediazione, ne deriva che l’indagine psicologica non può prendere in considerazione soltanto ciò che la gente fa, ma altresì ciò che la gente dice, sia in merito alle proprie azioni e alle loro motivazioni, sia relativamente alle azioni ed alle motivazioni degli altri.
“Il dire e il fare rappresentano un’unità funzionalmente inscindibile all’interno di una psicologia culturalmente orientata” [3]. Il rapporto tra il dire, il fare e le circostanze in cui si collocano è interpretabile; in una interazione sociale, il significato di ciascuna azione sarà attribuito sulla base delle informazioni verbali scambiate o ipotizzate prima, durante o dopo l’azione stessa. Tra il significato di ciò che è detto e le azioni messe in atto in determinate circostanze, esistono delle relazioni canoniche che vanno a determinare la condotta di vita in senso sociale; come esistono pure delle procedure di negoziazione che riportano la situazione alla norma in quei casi in cui le suddette relazioni siano violate.
Bruner ritiene che lo stesso Sé di un individuo sia il frutto di processi di costruzione del significato e sia perciò sostanzialmente un Sé narratore. Proprio per tale ragione l’unico metodo per averne una nozione generale si rivela l’autobiografia, attraverso la quale la persona dà voce a ciò che pensa di aver fatto, per quali motivi, in quali situazioni e giustifica parallelamente (in senso morale, sociale e psicologico) le direzioni che ha preso la sua vita.
Tale Sé, tuttavia, non è inteso da Bruner quale nucleo di coscienza isolato, racchiuso nella mente, esso è invece concepito come distribuito in senso interpersonale: le persone con cui si interagisce sono complici delle narrazioni e della costruzione del Sé.
Ogni Sé assume poi significato alla luce delle circostanze storiche che danno forma alla cultura di cui esso è espressione.
Ne deriva che non è possibile considerare il bambino avulso dalla cultura cui appartiene e dalla psicologia popolare dei suoi contesti di vita. Ad ogni sistema culturale corrispondono specifiche credenze e concezioni riguardanti ogni sfera dei comportamenti umani e degli avvenimenti esterni: il bambino è immerso in tutto ciò.
Varie osservazioni, secondo Bruner, danno sostegno a tale teoria.
Anzitutto, il linguaggio viene acquisito attraverso l’uso e grazie all’assistenza e all’interazione con chi si prende cura del bambino. Non si impara solo cosa dire, ma parallelamente come, dove, a chi ed in quali situazioni.
In secondo luogo, il bambino manifesta intenzioni comunicative, quali l’atto di indicare, il qualificare, il fare richieste, l’ingannare, già prima di padroneggiare il linguaggio formale con cui esprimersi verbalmente.
In terzo luogo, l’acquisizione di una lingua nei suoi aspetti grammaticali e lessicali, progredisce maggiormente quando il bambino già comprende, in modo prelinguistico, il significato dell’argomento trattato o del contesto in cui la conversazione ha luogo.
Si sostiene, inoltre, che il bambino possieda un ampio e precoce bagaglio di strumenti narrativi.
Se caratteristiche della narrazione sono: la presenza di un’azione diretta verso fini, l’esistenza di un ordine sequenziale, la sensibilità verso ciò che è canonico e ciò che fuori dell’ordinario, e la prospettiva del narratore, Bruner dimostra come il bambino manifesti precocemente attitudini in merito a tali caratteristiche.
Il bambino, infatti, è sin da piccolo interessato agli altri individui ed alle loro azioni, agli scopi ed al loro conseguimento; adopera molto presto nel suo linguaggio l’uso di connettivi temporali o causali per dare ordine sequenziale ai discorsi; concentra la sua attenzione e l’elaborazione dell’informazione sugli elementi insoliti; prende in considerazione la prospettiva, frutto del pianto, di altre manifestazioni di affetti o di caratteristiche prosodiche proprie delle prime fasi del linguaggio.
Nonostante gli individui possiedano una predisposizione innata per la narrazione, è parallelamente la cultura a fornire un insieme di strumenti e di tradizioni di raccontare e di interpretare a cui il bambino molto presto partecipa.
La competenza sociale è acquisita dapprincipio come prassi in specifici contesti in cui il bambino è coinvolto come protagonista. È attraverso l’azione, prima ancora che mediante il linguaggio, che il bambino impara a recitare il suo ruolo nella famiglia, cogliendo consensi, divieti e loro conseguenze.
Successivamente si rende conto dell’esigenza di legittimare le proprie azioni ed i propri scopi, al fine di evitare conflitti, e acquisisce consapevolezza dell’importanza del raccontare la “storia giusta”, ossia quella storia che faccia apparire le sue azioni come un’estensione delle azioni canoniche, modificate da circostanze attenuanti. Deve perciò non solo padroneggiare il linguaggio, ma anche le forme canoniche e gli strumenti della pratica retorica come ad es. l’inganno o l’adulazione. È in tal modo e attraverso tali processi che il bambino fa il suo ingresso nella cultura umana.
3 Cultura ed educazione
Bruner è convinto del fatto che l’educazione non possa essere un’isola, ma faccia parte del continente della cultura, ed il suo compito sia perciò quello di adattare la cultura alle esigenze dei suoi membri ed i suoi membri alle esigenze della cultura [4].
“L’apprendimento ed il pensiero sono sempre situati in un contesto culturale e dipendono sempre dall’utilizzazione di risorse culturali”.[5]
Nell’approcciarsi a questioni educative, perciò, bisogna sempre, secondo l’autore, porsi una serie di interrogativi. Anzitutto quale funzione svolga l’educazione in una determinata cultura e che ruolo essa assuma nella vita di coloro che vi operano al suo interno. In secondo luogo, il motivo per cui essa occupi quel ruolo in quella cultura e la eventuale relazione con fattori quali la distribuzione del potere, il prestigio sociale, l’esistenza di particolari benefici. In terzo luogo, quali risorse abilitanti a vivere in quella cultura siano fornite attraverso l’educazione. Ed infine, quali limiti, esterni o interni, siano imposti al processo educativo.
Se ciò vale per l’educazione in generale, a maggior ragione vale per la scuola che, secondo Bruner, “non può mai essere considerata culturalmente ‘indipendente’. Cosa insegna, quali modi di pensiero e quali ‘registri linguistici’ effettivamente coltiva nei suoi alunni, non possono essere isolati dalla posizione che ha la scuola nella vita e nella cultura dei suoi studenti. […] Il principale contenuto della scuola, vista culturalmente, è la scuola stessa”.[6]
Nessun intervento educativo, pertanto, a maggior ragione se proposto in una cultura diversa da quella di appartenenza, può prescindere da una preliminare indagine sulle funzioni, i ruoli, le risorse, i limiti dell’educazione già realizzata nel contesto; questo proprio perché è necessaria una contestualizzazione dei programmi in quanto, come sottolineato dall’autore, l’educazione non può essere un’isola, ma deve far parte del continente della cultura.
Nel teorizzare sulla pratica educativa, bisogna parallelamente, secondo l’autore, prendere in considerazione le teorie popolari possedute da coloro che sono impegnati in tale pratica. Bruner, parla a tal proposito di una vera e propria pedagogia popolare che racchiude le concezioni relative alla natura della mente del bambino ed alle strategie didattiche ritenute più efficaci per un suo apprendimento.
Tenere in considerazione tutti i fattori sopra esposti significa “contestualizzare” i processi educativi nella loro cultura di appartenenza evitando il rischio di applicare modelli etnocentrici e di trattare come deficit quelle che sono semplicemente delle diversità culturali. Molto spesso, infatti, secondo l’autore, è stato impiegato il termine di “deprivazione culturale” per giustificare l’incapacità di tenere conto del bisogno dei gruppi e delle culture di conservare un senso della propria identità e delle proprie tradizioni [7].
Bruner ritiene che l’educazione debba oggi confrontarsi con una serie di antinomie.
La prima antinomia vede, da un lato, le esigenze di realizzazione individuale e di promozione delle potenzialità di ciascuno; dall’altro lato, la necessità di riproduzione e di sviluppo di una cultura nei suoi aspetti economici, politici e culturali.
La seconda antinomia si dibatte tra l’opportunità di coltivare i talenti innati e la necessità di offrire a tutti la possibilità di progredire.
La terza antinomia, infine, risiede nella contrapposizione tra concezioni che vedono nelle culture locali sistemi autogiustificantesi, non bisognosi di essere ricondotti a interpretazioni universalistiche o superiori, e concezioni che, al contrario, considerano la condizione umana quale espressione di una storia più universale e di una cultura più vasta.
Tali antinomie, la cui risoluzione interroga la riflessione pedagogica in ogni luogo, sono forse maggiormente avvertite o urgenti nei Paesi in via di sviluppo, in cui si oscilla tra il rischio di ripiegamento e di chiusura a causa di una cieca e rigida fedeltà alla tradizione ed il rischio di annientamento delle individualità e delle culture locali in nome dell’innovazione e dello sviluppo globale.
Al fine di realizzare i giusti equilibri tra le tre antinomie, si afferma che la scuola debba configurarsi quale “controcultura”, ossia quale spazio educativo teso ad accrescere la consapevolezza, la metacognizione, la collaborazione, il sentimento di autostima e il senso di partecipazione ad una comunità e ad una cultura abilitante. Un’istituzione, perciò, capace di creare una cultura di gruppo all’interno della quale possano svolgersi processi di costruzione dell’identità personale e fenomeni di collaborazione; in cui sia consentito a ciascuno di procedere secondo le proprie capacità, contribuendo, parallelamente, alla creazione di un’opera collettiva, frutto della divisione del lavoro, della condivisione degli obiettivi, e manifestazione di un’identità di gruppo.
Tale modello, definito da Bruner pedagogia della reciprocità o cultura-nella-pratica, sottende una concezione della mente del discente vista come capace di costruire delle proprie teorie e credenze sul mondo, grazie alle quali interpretare l’esperienza. Attraverso la discussione e l’interazione, tali teorie possono essere dirette verso un quadro di riferimento comune. Il bambino perciò, attivo e curioso, è capace di ragionare, di riflettere sul suo stesso pensiero, di rivedere e correggere, attraverso il dialogo ed il confronto, le proprie idee.
La scuola si configura quale comunità interattiva in cui è coltivata la consapevolezza del significato e delle implicazioni che derivano dal vivere nella società moderna, e sono promosse le competenze necessarie ad affrontare tale società e ad esserne parte attiva.
Tale modello, che rappresenta una sorta di idea guida per ogni processo educativo, reca degli aspetti, quali la creazione di una cultura di gruppo, il senso di partecipazione ad una collettività, il costituirsi di una comunità interattiva, che potrebbero fornire importanti spunti in vista della risoluzione delle contraddizioni presenti nelle società combattute tra tradizione ed innovazione.
_____________________
1 Mente, cultura e psicologia popolare*
Una scienza della mente deve proporsi l’obiettivo di scoprire e di descrivere i significati che gli esseri umani costruiscono nel loro contatto con il mondo e di individuare i processi attraverso i quali tali significati sono creati e condivisi all’interno di una comunità.
La cultura rappresenta quel prodotto della storia che modella la mente umana costituendo sia il mondo a cui adattarsi sia l’insieme degli strumenti per farlo.
Nell’ottica del culturalismo, la mente non potrebbe esistere senza la cultura, in quanto ciò che differenzia l’uomo dalle specie inferiori è proprio un modo di vivere in cui la realtà è costruita e rappresentata attraverso un sistema simbolico condiviso dai membri di una comunità culturale e conservato e tramandato alle generazioni successive, al fine del mantenimento dell’identità e dello stile di vita tipici di quella cultura.
L’espressione individuale della cultura è legata al fare significato; nonostante i significati, tuttavia, siano nella mente dell’individuo, essi hanno origine e rilevanza all’interno del sistema culturale in cui sono stati creati e per tale ragione sono negoziabili e comunicabili.
La cultura, pertanto, pur essendo un prodotto dell’uomo, è allo stesso tempo ciò che rende possibile l’attività della mente umana.
L’esperienza e l’azione umana sono modellate dalle credenze, dai desideri, dai sentimenti, dalle motivazioni dell’individuo (definiti stati psicologici intenzionali) e questi ultimi acquistano significato solo se considerati in rapporto ai contesti delle interazioni sociali e degli eventi della vita quotidiana. Di contro, dunque, ad una concezione secondo la quale sarebbe l’eredità biologica a guidare e plasmare l’esperienza e l’azione dell’uomo, spesso si ritiene che tale ruolo venga esercitato dalla cultura, la quale, tra l’altro, consente di creare dei meccanismi-protesi attraverso i quali trascendere i limiti biologici imposti all’azione.
Elemento cardine di una cultura è la cosiddetta psicologia popolare o senso comune, ossia un insieme organizzato di rappresentazioni degli eventi e di teorie intuitive circa l’essere umano, il funzionamento della mente, l’agire. Essa è funzionale al mantenimento della coesione tra i membri di una cultura e fornisce possibili modelli di vita.
Uno dei presupposti della psicologia popolare è che la gente abbia credenze e desideri caratterizzati da una certa coerenza. Essa è organizzata su base narrativa piuttosto che concettuale ed ha come oggetto degli individui che agiscono sulla base delle loro credenze e dei loro desideri, che sono volti al conseguimento di particolari fini e che incontrano difficoltà ed ostacoli risolvibili o insormontabili, il tutto nell’arco di un certo intervallo di tempo.
La cultura rappresenta quel prodotto della storia che modella la mente umana costituendo sia il mondo a cui adattarsi sia l’insieme degli strumenti per farlo.
Nell’ottica del culturalismo, la mente non potrebbe esistere senza la cultura, in quanto ciò che differenzia l’uomo dalle specie inferiori è proprio un modo di vivere in cui la realtà è costruita e rappresentata attraverso un sistema simbolico condiviso dai membri di una comunità culturale e conservato e tramandato alle generazioni successive, al fine del mantenimento dell’identità e dello stile di vita tipici di quella cultura.
L’espressione individuale della cultura è legata al fare significato; nonostante i significati, tuttavia, siano nella mente dell’individuo, essi hanno origine e rilevanza all’interno del sistema culturale in cui sono stati creati e per tale ragione sono negoziabili e comunicabili.
La cultura, pertanto, pur essendo un prodotto dell’uomo, è allo stesso tempo ciò che rende possibile l’attività della mente umana.
L’esperienza e l’azione umana sono modellate dalle credenze, dai desideri, dai sentimenti, dalle motivazioni dell’individuo (definiti stati psicologici intenzionali) e questi ultimi acquistano significato solo se considerati in rapporto ai contesti delle interazioni sociali e degli eventi della vita quotidiana. Di contro, dunque, ad una concezione secondo la quale sarebbe l’eredità biologica a guidare e plasmare l’esperienza e l’azione dell’uomo, spesso si ritiene che tale ruolo venga esercitato dalla cultura, la quale, tra l’altro, consente di creare dei meccanismi-protesi attraverso i quali trascendere i limiti biologici imposti all’azione.
Elemento cardine di una cultura è la cosiddetta psicologia popolare o senso comune, ossia un insieme organizzato di rappresentazioni degli eventi e di teorie intuitive circa l’essere umano, il funzionamento della mente, l’agire. Essa è funzionale al mantenimento della coesione tra i membri di una cultura e fornisce possibili modelli di vita.
Uno dei presupposti della psicologia popolare è che la gente abbia credenze e desideri caratterizzati da una certa coerenza. Essa è organizzata su base narrativa piuttosto che concettuale ed ha come oggetto degli individui che agiscono sulla base delle loro credenze e dei loro desideri, che sono volti al conseguimento di particolari fini e che incontrano difficoltà ed ostacoli risolvibili o insormontabili, il tutto nell’arco di un certo intervallo di tempo.
La psicologia popolare, pertanto, è strutturata sulla base delle proprietà della narrazione:
- La sequenzialità: ogni narrazione è composta da una sequenza di avvenimenti e di stati mentali; ogni componente acquista significato in ragione della sua collocazione all’interno della sequenza complessiva, ossia la trama.
- L’indifferenza ai fatti: la narrazione può essere reale o immaginaria, vi è una relazione anomala tra il senso ed il riferimento esterno e la trama generale è determinata dalla sequenza delle frasi piuttosto che dalla verità o falsità di esse.
- La gestione dell’eccezionale in rapporto all’ordinario: pur prendendo in esame ciò che nell’uomo vi è di usuale e di prevedibile e apportandovi legittimità, ogni narrazione possiede strumenti per rendere comprensibile lo straordinario e l’insolito; ogni cultura possiede un insieme di procedure interpretative per assegnare significato agli scostamenti dalle norme.
Lo psicologo americano Jerome Bruner afferma: “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico” [1].
Ogni racconto è composto da cinque elementi: l’attore, l’azione, lo scopo, la scena, lo strumento; tra i cinque elementi è inserito un problema la cui funzione è di creare uno squilibrio che possa poi essere risolto o quantomeno spiegato da un punto di vista morale [2].
La narrazione consente la strutturazione dell’esperienza, una strutturazione che è sociale, finalizzata alla condivisione del ricordo all’interno di una cultura e orientata a fornire ad un gruppo una guida relativamente ai suoi rapporti con gli accadimenti esterni.
Essendo la psicologia popolare un importante fattore di mediazione, ne deriva che l’indagine psicologica non può prendere in considerazione soltanto ciò che la gente fa, ma altresì ciò che la gente dice, sia in merito alle proprie azioni e alle loro motivazioni, sia relativamente alle azioni ed alle motivazioni degli altri.
“Il dire e il fare rappresentano un’unità funzionalmente inscindibile all’interno di una psicologia culturalmente orientata” [3]. Il rapporto tra il dire, il fare e le circostanze in cui si collocano è interpretabile; in una interazione sociale, il significato di ciascuna azione sarà attribuito sulla base delle informazioni verbali scambiate o ipotizzate prima, durante o dopo l’azione stessa. Tra il significato di ciò che è detto e le azioni messe in atto in determinate circostanze, esistono delle relazioni canoniche che vanno a determinare la condotta di vita in senso sociale; come esistono pure delle procedure di negoziazione che riportano la situazione alla norma in quei casi in cui le suddette relazioni siano violate.
Bruner ritiene che lo stesso Sé di un individuo sia il frutto di processi di costruzione del significato e sia perciò sostanzialmente un Sé narratore. Proprio per tale ragione l’unico metodo per averne una nozione generale si rivela l’autobiografia, attraverso la quale la persona dà voce a ciò che pensa di aver fatto, per quali motivi, in quali situazioni e giustifica parallelamente (in senso morale, sociale e psicologico) le direzioni che ha preso la sua vita.
Tale Sé, tuttavia, non è inteso da Bruner quale nucleo di coscienza isolato, racchiuso nella mente, esso è invece concepito come distribuito in senso interpersonale: le persone con cui si interagisce sono complici delle narrazioni e della costruzione del Sé.
Ogni Sé assume poi significato alla luce delle circostanze storiche che danno forma alla cultura di cui esso è espressione.
Ne deriva che non è possibile considerare il bambino avulso dalla cultura cui appartiene e dalla psicologia popolare dei suoi contesti di vita. Ad ogni sistema culturale corrispondono specifiche credenze e concezioni riguardanti ogni sfera dei comportamenti umani e degli avvenimenti esterni: il bambino è immerso in tutto ciò.
2 L’ ingresso del bambino nella cultura
Una teoria specifica ritiene che i bambini imparino ad assegnare un senso narrativo al mondo circostante a partire da delle attitudini al significato di tipo prelinguistico. I bambini perciò sarebbero sensibili a determinate classi di significato già prima dell’avvento del linguaggio come strumento di interazione, possiederebbero una forma primitiva di psicologia popolare intesa alla stregua di un bagaglio di predisposizioni a costruire il mondo sociale secondo specifici modelli e ad agire su tali costruzioni. Queste predisposizioni verrebbero attivate dalle azioni e dalle espressioni degli altri, come pure dai contesti sociali di base in cui i bambini si trovano ad interagire.
Varie osservazioni, secondo Bruner, danno sostegno a tale teoria.
Anzitutto, il linguaggio viene acquisito attraverso l’uso e grazie all’assistenza e all’interazione con chi si prende cura del bambino. Non si impara solo cosa dire, ma parallelamente come, dove, a chi ed in quali situazioni.
In secondo luogo, il bambino manifesta intenzioni comunicative, quali l’atto di indicare, il qualificare, il fare richieste, l’ingannare, già prima di padroneggiare il linguaggio formale con cui esprimersi verbalmente.
In terzo luogo, l’acquisizione di una lingua nei suoi aspetti grammaticali e lessicali, progredisce maggiormente quando il bambino già comprende, in modo prelinguistico, il significato dell’argomento trattato o del contesto in cui la conversazione ha luogo.
Si sostiene, inoltre, che il bambino possieda un ampio e precoce bagaglio di strumenti narrativi.
Se caratteristiche della narrazione sono: la presenza di un’azione diretta verso fini, l’esistenza di un ordine sequenziale, la sensibilità verso ciò che è canonico e ciò che fuori dell’ordinario, e la prospettiva del narratore, Bruner dimostra come il bambino manifesti precocemente attitudini in merito a tali caratteristiche.
Il bambino, infatti, è sin da piccolo interessato agli altri individui ed alle loro azioni, agli scopi ed al loro conseguimento; adopera molto presto nel suo linguaggio l’uso di connettivi temporali o causali per dare ordine sequenziale ai discorsi; concentra la sua attenzione e l’elaborazione dell’informazione sugli elementi insoliti; prende in considerazione la prospettiva, frutto del pianto, di altre manifestazioni di affetti o di caratteristiche prosodiche proprie delle prime fasi del linguaggio.
Nonostante gli individui possiedano una predisposizione innata per la narrazione, è parallelamente la cultura a fornire un insieme di strumenti e di tradizioni di raccontare e di interpretare a cui il bambino molto presto partecipa.
La competenza sociale è acquisita dapprincipio come prassi in specifici contesti in cui il bambino è coinvolto come protagonista. È attraverso l’azione, prima ancora che mediante il linguaggio, che il bambino impara a recitare il suo ruolo nella famiglia, cogliendo consensi, divieti e loro conseguenze.
Successivamente si rende conto dell’esigenza di legittimare le proprie azioni ed i propri scopi, al fine di evitare conflitti, e acquisisce consapevolezza dell’importanza del raccontare la “storia giusta”, ossia quella storia che faccia apparire le sue azioni come un’estensione delle azioni canoniche, modificate da circostanze attenuanti. Deve perciò non solo padroneggiare il linguaggio, ma anche le forme canoniche e gli strumenti della pratica retorica come ad es. l’inganno o l’adulazione. È in tal modo e attraverso tali processi che il bambino fa il suo ingresso nella cultura umana.
“L’apprendimento ed il pensiero sono sempre situati in un contesto culturale e dipendono sempre dall’utilizzazione di risorse culturali”.[5]
Nell’approcciarsi a questioni educative, perciò, bisogna sempre, secondo l’autore, porsi una serie di interrogativi. Anzitutto quale funzione svolga l’educazione in una determinata cultura e che ruolo essa assuma nella vita di coloro che vi operano al suo interno. In secondo luogo, il motivo per cui essa occupi quel ruolo in quella cultura e la eventuale relazione con fattori quali la distribuzione del potere, il prestigio sociale, l’esistenza di particolari benefici. In terzo luogo, quali risorse abilitanti a vivere in quella cultura siano fornite attraverso l’educazione. Ed infine, quali limiti, esterni o interni, siano imposti al processo educativo.
Se ciò vale per l’educazione in generale, a maggior ragione vale per la scuola che, secondo Bruner, “non può mai essere considerata culturalmente ‘indipendente’. Cosa insegna, quali modi di pensiero e quali ‘registri linguistici’ effettivamente coltiva nei suoi alunni, non possono essere isolati dalla posizione che ha la scuola nella vita e nella cultura dei suoi studenti. […] Il principale contenuto della scuola, vista culturalmente, è la scuola stessa”.[6]
Nessun intervento educativo, pertanto, a maggior ragione se proposto in una cultura diversa da quella di appartenenza, può prescindere da una preliminare indagine sulle funzioni, i ruoli, le risorse, i limiti dell’educazione già realizzata nel contesto; questo proprio perché è necessaria una contestualizzazione dei programmi in quanto, come sottolineato dall’autore, l’educazione non può essere un’isola, ma deve far parte del continente della cultura.
Nel teorizzare sulla pratica educativa, bisogna parallelamente, secondo l’autore, prendere in considerazione le teorie popolari possedute da coloro che sono impegnati in tale pratica. Bruner, parla a tal proposito di una vera e propria pedagogia popolare che racchiude le concezioni relative alla natura della mente del bambino ed alle strategie didattiche ritenute più efficaci per un suo apprendimento.
Tenere in considerazione tutti i fattori sopra esposti significa “contestualizzare” i processi educativi nella loro cultura di appartenenza evitando il rischio di applicare modelli etnocentrici e di trattare come deficit quelle che sono semplicemente delle diversità culturali. Molto spesso, infatti, secondo l’autore, è stato impiegato il termine di “deprivazione culturale” per giustificare l’incapacità di tenere conto del bisogno dei gruppi e delle culture di conservare un senso della propria identità e delle proprie tradizioni [7].
Bruner ritiene che l’educazione debba oggi confrontarsi con una serie di antinomie.
La prima antinomia vede, da un lato, le esigenze di realizzazione individuale e di promozione delle potenzialità di ciascuno; dall’altro lato, la necessità di riproduzione e di sviluppo di una cultura nei suoi aspetti economici, politici e culturali.
La seconda antinomia si dibatte tra l’opportunità di coltivare i talenti innati e la necessità di offrire a tutti la possibilità di progredire.
La terza antinomia, infine, risiede nella contrapposizione tra concezioni che vedono nelle culture locali sistemi autogiustificantesi, non bisognosi di essere ricondotti a interpretazioni universalistiche o superiori, e concezioni che, al contrario, considerano la condizione umana quale espressione di una storia più universale e di una cultura più vasta.
Tali antinomie, la cui risoluzione interroga la riflessione pedagogica in ogni luogo, sono forse maggiormente avvertite o urgenti nei Paesi in via di sviluppo, in cui si oscilla tra il rischio di ripiegamento e di chiusura a causa di una cieca e rigida fedeltà alla tradizione ed il rischio di annientamento delle individualità e delle culture locali in nome dell’innovazione e dello sviluppo globale.
Al fine di realizzare i giusti equilibri tra le tre antinomie, si afferma che la scuola debba configurarsi quale “controcultura”, ossia quale spazio educativo teso ad accrescere la consapevolezza, la metacognizione, la collaborazione, il sentimento di autostima e il senso di partecipazione ad una comunità e ad una cultura abilitante. Un’istituzione, perciò, capace di creare una cultura di gruppo all’interno della quale possano svolgersi processi di costruzione dell’identità personale e fenomeni di collaborazione; in cui sia consentito a ciascuno di procedere secondo le proprie capacità, contribuendo, parallelamente, alla creazione di un’opera collettiva, frutto della divisione del lavoro, della condivisione degli obiettivi, e manifestazione di un’identità di gruppo.
Tale modello, definito da Bruner pedagogia della reciprocità o cultura-nella-pratica, sottende una concezione della mente del discente vista come capace di costruire delle proprie teorie e credenze sul mondo, grazie alle quali interpretare l’esperienza. Attraverso la discussione e l’interazione, tali teorie possono essere dirette verso un quadro di riferimento comune. Il bambino perciò, attivo e curioso, è capace di ragionare, di riflettere sul suo stesso pensiero, di rivedere e correggere, attraverso il dialogo ed il confronto, le proprie idee.
La scuola si configura quale comunità interattiva in cui è coltivata la consapevolezza del significato e delle implicazioni che derivano dal vivere nella società moderna, e sono promosse le competenze necessarie ad affrontare tale società e ad esserne parte attiva.
Tale modello, che rappresenta una sorta di idea guida per ogni processo educativo, reca degli aspetti, quali la creazione di una cultura di gruppo, il senso di partecipazione ad una collettività, il costituirsi di una comunità interattiva, che potrebbero fornire importanti spunti in vista della risoluzione delle contraddizioni presenti nelle società combattute tra tradizione ed innovazione.
_____________________
NOTE
* Fonte: Barbara De Canale, "JEROME BRUNER E LA COSTRUZIONE DEL SIGNIFICATO", Pegaso, 2012.
1. Cfr. J. BRUNER, Acts of Meaning, Harvard University Press, London 1990, tr. it. La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 59.
2. Nel trattare degli aspetti teatrali della narrazione, Bruner riprende il pensiero di Kenneth Burke. Cfr. K. BURKE, A Grammar of Motives, Prentice-Hall, New York 1845.
1. Cfr. J. BRUNER, Acts of Meaning, Harvard University Press, London 1990, tr. it. La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 59.
2. Nel trattare degli aspetti teatrali della narrazione, Bruner riprende il pensiero di Kenneth Burke. Cfr. K. BURKE, A Grammar of Motives, Prentice-Hall, New York 1845.
3. Cfr. J. BRUNER, Acts of Meaning, op. cit., p. 34.
4. Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, op. cit.
5. Ivi, p. 17.
6. Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, op. cit., p. 41.
7. Si veda in proposito quanto Bruner afferma in merito all’educazione compensativa ed ai Programmi Head Start, ibidem.
5. Ivi, p. 17.
6. Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, op. cit., p. 41.
7. Si veda in proposito quanto Bruner afferma in merito all’educazione compensativa ed ai Programmi Head Start, ibidem.
- Per approfondire, vedi anche: Scienza del XXI secolo : istruzioni per l’uso o ricerca di significati ? di F. Tito Arecchi
- ...nonché: IL TEMPO DEL RACCONTO - La narrazione come percorso di conoscenza sociologica di Sebastiano Distefano
- e pure: Spiritualità e realtà - Una visione umanistica e scientifica del mondo