AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
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Tuesday 18 July 2017

IN ME TU NON MORIRAI!

LA POTENZA DELL’AMICIZIA

di Francesco Occhetta
(L'UMANO NELLA CITTÀ, febbraio 2015)

L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole, meno impegnativo.

È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile.

Forse proprio nei momenti di crisi si riflette sul suo valore, quando ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici?

L’amicizia come virtù

Alcuni filosofi contemporanei si sono chiesti se l’ideale di amicizia descritto dai classici come splendido, carico di affetto e di altruismo, sia ancora valido oggi come nel passato. Sappiamo che il mondo greco riteneva la philia l’elemento che consentiva qualsiasi relazione sociale, chiamata da Aristotele koinonia, intesa come comunione e condivisione.

Ma quando questo «mettere in comune» si fonda su un calcolo utilitario, possiamo parlare di amicizia? Aristotele, Cicerone e altri scrittori dell’antichità sostengono che il vero amico non desidera mai fare qualche cosa che non sia in sé morale, nobile e virtuosa. L’antica idea aristotelica dell’amicizia è che gli amici facciano emergere l’uno il meglio dell’altro.

In tale prospettiva l’amicizia non può essere questione di calcolo né si limita ad essere solamente una forma di affetto o di passione, ma è una virtù. Per questo, con ragione, l’amicizia va intesa come un’avventura; si tratta di un cammino, di una storia di incontri, in cui l’esperienza sempre nuova ci fa scoprire la gioia di ritrovarsi, il piacere di stare insieme gratuitamente, la facilità di comunicare reciprocamente in piena libertà, in un’atmosfera di essenzialità che alla presenza dell’altro ci fa dire «stiamo bene insieme».

Gli amici possono avere la stessa formazione o gli stessi interessi, ma, al più alto livello, l’amicizia riguarda la formazione e l’elevazione di un buon carattere: un’amicizia che porti corruzione o altre intenzioni malvagie non è, ipso facto, vera amicizia.

I fini non buoni sono un impedimento alla costruzione di una vera amicizia. Gli amici, nel senso aristotelico, si offrono reciproci benefici; per dirlo con le parole di Aristotele: «È proprio dell’amico piuttosto fare il bene che riceverlo, […] è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare». Infatti, una delle ragioni per avere amici, secondo Aristotele, era avere persone a cui fare del bene. Per questa ragione persino gli uomini perfettamente felici hanno bisogno di amici, poiché senza di loro sono incompleti. Per questo egli definisce l’amicizia come «cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni» (Etica Nicomachea, libro VIII, cap. I).

In una vera amicizia, dunque, la questione di vivere egoisticamente o altruisticamente non entra in gioco, ma si dissolve nel volere il bene dell’altro, nella capacità di realizzare quel «prodigio di camminare ciascuno al proprio passo pur andando allo stesso ritmo». Non ci si schiaccia e non ci si riduce a stare uno davanti all’altro ma, come sottolinea X. Lacroix, «lo sguardo si volge a un orizzonte che è insieme comune e liberamente visitato da ognuno».

Anche la cultura mediorientale ha descritto questa realtà negli stessi termini. Kahlil Gibran descrive l’amico con queste parole: «Il vostro amico è la vostra esigenza soddisfatta[…], è lui che ricercate per la vostra pace […]. Quando egli tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore. Poiché nell’amicizia, pensieri, desideri, attese, tutto nasce ed è condiviso senza parole, con una gioia priva di plauso. Se vi separate dall’amico non rattristatevi; poiché ciò che maggiormente amate in lui può meglio risplendere nell’assenza […]. E sia per l’amico la parte migliore di voi […]. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore scopre il suo mattino e ne è ristorato» (3).

È infatti dalle piccole cose che l’amicizia si mostra senza bisogno di dimostrarsi. L’amico, scrive Francesco Alberoni, «è colui che ci rende giustizia», senza essere però tribunale e giudice delle nostre azioni. Due amici possono avere cammini molto diversi fino a evolvere in direzioni religiose o politiche diverse, ma la forza sta nell’«accogliere tali cambiamenti come un’occasione […]. L’amico non è soltanto colui che mi arricchisce, può essere anche colui che mi interroga, mi critica, mi rende più povero. Potrà essere che viene a ricordarmi che il mio itinerario non è l’unico possibile e che, proprio a partire da ciò che ci unisce, sono possibili altre scelte spirituali, intellettuali o esistenziali» (p. 17).

Ciò che trasforma sono esattamente le caratteristiche intrinseche dell’amicizia: la fedeltà, l’accoglienza, la parità, la benevolenza e la gratuità. Ne esiste un’altra: l’amicizia ha bisogno della presenza che va al di là di qualsiasi parola.

La differenza tra amore e amicizia

Una prima differenza tra amore e amicizia risiede nella genesi dell’incontro: «Nell’amore c’è il colpo di fulmine, che nell’amicizia è assente» (p. 20). I gesti dell’amicizia, come un sorriso, una mano sulla spalla, un bacio, da una parte dicono l’incarnazione di una realtà che si vive, dall’altra acquistano significato soltanto se c’è la volontà di non possedere l’altro. Infatti «l’amicizia si accontenta, anzi si rallegra, dell’apparire dell’amico; l’amore invece aspira ad assaporarne la sostanza, il palpito sensibile della sua vita […]. [Se] l’altro è nel contempo altro da me stesso, e mio simile, anche se differente da me, l’amicizia sarà esperienza di similitudine nell’alterità, mentre l’amore sarà avventura della differenza in tensione verso l’unità» (p. 22). Ecco la differenza tra vivere in comunione con l’amico e l’unione con un partner. Nell’amicizia, afferma A. Cugno, «vi è un funzionamento della sessualità del tutto specifico, che si può chiamare molto semplicemente castità» (cfr p. 24). Le amicizie dunque non si possiedono; quando tendono a diventare esclusive potrebbero essere l’anticamera dell’amore, che come caratteristica propria ha quella dell’esclusività. Invece l’amicizia, per quanto profonda, lascia sempre spazio ad altre amicizie, dalle quali può anche trarne arricchimento.

X. Lacroix, distingue tre diverse forme di amicizia: per simpatia, per angoscia e amicizia fraterna. La prima si fonda su un dono autentico dato da una «disposizione spirituale di uno verso l’altro» che fa esclamare: «Perché era lui, perché ero io» (p. 132). L’amicizia per angoscia coinvolge coloro che hanno condiviso una forma di solidarietà forte, come, ad esempio, i compagni di prigionia, ma anche di scuola o quando i lavori sono duri e faticosi. L’amicizia fraterna si caratterizza per essere cresciuti insieme all’amico o quando un fratello sia anche un amico.

Anche le dimensioni spazio-temporali sono quasi opposte tra l’amicizia e l’amore. Alberoni definisce l’amicizia un «aggregato di frammenti». Quando, ad esempio, si incontra un amico che è stato un compagno di scuola, l’esclamazione «da quanto tempo non ci si vede» assume un significato particolare che vince il tempo: «Tra amici è espressione di gioia, serena e gratificante, mentre tra amanti rappresenta piuttosto una lamentela, l’espressione di una fatica, quando non è un rimprovero» (p. 31 Libro nota 1); anche per questa sua caratteristica l’amicizia, alla fine, si mostra «più stabile di tanti amori».

L’amicizia fa soffrire meno dell’amore. Lacroix pone l’accento su un elemento antropologico che può confondere: «A volte si confonde l’amicizia con l’amore (amicizia erotizzata), dall’altro si tende a concepire l’amore sul modello dell’amicizia», e aggiunge: «Il termine “compagno” che attualmente ricorre spesso al posto di sposo o di coniuge non conviene forse all’amico?» (p. 36 Libro nota 1). Per uscire dall’ambiguità, X. Lacroix ricorda che è proprio degli amori stabili la capacità di permettere di vivere amicizie limpide, come del resto è proprio delle vere e profonde amicizie aiutare le storie d’amore ad aprirsi e a dare respiro. Ma l’amicizia permette anche all’amore di purificarsi: «Quel fuoco oscuro delle passioni viene in un certo senso purificato dall’amicizia, che lo sublima e lo spiritualizza» (p. 117). Le domande che l’amicizia fa sorgere con forza, sono domande ultime, sono domande morali: per chi viviamo? Per chi siamo al mondo: per noi o per gli altri?

Per vivere serenamente l’avventura dell’amicizia bisogna avere fiducia in se stessi; questo non significa amarsi per volere solamente il bene dell’altro, ma, come direbbe Nicolas Malebranche, chiede di «smetterla di amarsi male» (cfr p. 114).

L’amicizia è dunque un appello all’altro, perché diventi nella verità colui che è chiamato ad essere. Malgrado il male, l’odio, le menzogne e le infedeltà, «l’esperienza dell’amicizia non è soltanto ciò che mi permette di evitare la disperazione, ma [ciò] che mi permette di avere una fiducia invincibile nell’uomo» (così Peguy).

L’amicizia nella Bibbia e la teologia

Nella Bibbia si raccontano storie di amicizia, come quella tra Gionata e David o tra Rut e Noemi.Quest’ultima ci ha regalato versetti di straordinaria commozione: «Perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rt 1,16-18). Grazie a tale insistenza Noemi comprese quale dono fosse Rut per la sua vita, così partirono insieme per il loro viaggio. Più in generale, queste parole pronunciate da un’amica per un’amica sono oggi una provocazione per quanti vogliono misurare il loro grado di fedeltà verso i propri amici.

Ma l’Antico Testamento invita anche a stare in guardia per discernere se davvero il vero amico è colui che «ama in ogni circostanza; [ed] è un fratello nell’avversità» (Prv 17,17). Il libro del Siracide dedica all’amicizia una sua parte, il cap. 6, e afferma: «Prima di farti un amico, mettilo alla prova, non confidarti subito con lui. C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura. Nella tua fortuna sarà come un altro te stesso […] ma se sarai umiliato, si ergerà contro di te e dalla tua presenza si nasconderà» (Sir 6, 7-12). La parte sull’amicizia si conclude con parole di alto valore sapienziale: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore» (Sir 6,14-15).

C’è chi sostiene che il Nuovo Testamento non dia spazio a storie di amicizie. Invece nel Vangelo di Giovanni troviamo le parole con cui Gesù definisce, in termini di amicizia, il suo rapporto con i discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere anche a voi» (Gv 15,15). Dio chiama l’uomo: amico. Secondo il testo, si tratta di un’amicizia offerta come dono al discepolo, che, nella sua libertà, è chiamato ad accettarla e a viverla. L’icona di Giovanni che durante l’Ultima Cena appoggia il volto sul cuore di Gesù è un singolare momento di amicizia rimasto a lungo nella memoria della Chiesa primitiva. In proposito Jean Galot ha affermato che «l’amicizia per Giovanni appare profondamente incarnata. […]. Stringendo un’amicizia con il discepolo, [il Signore] mostra che né per l’uno né per l’altro vi è infrazione al dono totale di sé. Non solo quell’amicizia non può nuocere alla consacrazione, ma è in armonia con essa» (J. Galot, L’amicizia, valore evangelico). Così Cristo è stato amico di Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro a tal punto che davanti alla sua morte, dirà sant’Ireneo, Gesù pianse come uomo e amico e lo resuscitò come Dio.

Davanti a queste scene evangeliche, «il sacro deve d’ora in poi liberarsi da una corteccia troppo fredda e troppo ieratica per entrare nel calore dell’amicizia, perché la comunicazione con la vita divina ha come sorgente l’Amico» (J. Galot, L’amicizia, valore evangelico). Comprendere la dimensione sacra del rapporto con Dio, che nel volume in esame è spiegata dai domenicani Jean-Marie Gueullette e da Luc Devillers, non può che includere il senso della consacrazione vissuta come un’amicizia che unisce a Cristo e che da lui si irradia agli altri.

L’amicizia spirituale

«L’amicizia con l’altro è un’epifania dell’amicizia con Dio», ha scritto Thomas Merton. A questo riguardo, la parte finale del volume riporta il pensiero di Aelredo di Rievaulx, monaco cistercense del XIII secolo, che nel suo testo L’amicizia spirituale afferma: «Un amico che prega Cristo per conto dell’amico, e desidera essere esaudito da Cristo per amore dell’amico, finisce per dirigere su Cristo il suo amore e il suo desiderio […]. In questo modo da quell’amore santo con cui si abbraccia il proprio amico, si sale a quello con cui si abbraccia Cristo: si afferma così, nella letizia spirituale, nell’attesa di una pienezza che si realizzerà nel tempo a venire» (p. 137). La stessa idea è stata ripresa alcuni secoli più tardi da Francesco di Sales: «Parlo dell’amicizia spirituale per cui due o tre anime si comunicano la loro devozione e i loro affetti spirituali, fino a formare un solo corpo» (p. 159 s). In Cristo i conflitti e le ferite, le contraddizioni e le crisi che nel tempo un’amicizia può subire, non la distruggeranno in forza dell’aver sperimentato il dono che noi chiamiamo perdono.

Roger Schutz, fondatore della comunità di Taizé ritiene che «bisogna conoscere la solitudine con se stessi per cogliere i valori di certi incontri», che di per sé possono anche essere limitati nel tempo, ma «segnare tutta un’esistenza» (p. 167). Nel suo diario, dichiarava: «Un fratello mi scrive: In questi tempi in cui Dio ci mette alla prova per osservare il nostro grado di amicizia con lui, le amicizie che viviamo con gli uomini e con i nostri fratelli assumono una dimensione di eternità» (p. 168). Perciò una delle grandi sfide è saper guardare le amicizie con gli occhi della fede, che disvelano un senso profondo su di sé e la realtà storica che si vive. In fondo tutto è da ricondurre alla sete di relazioni che gli uomini hanno: R. Schutz si chiede se alla radice di questa intuizione esistenziale non vi sia «una comunione altra, più essenziale, da raggiungere con Cristo» (p. 169).

Insomma tutto queste parole per ribadire che l’amicizia, intesa come valore morale, è quel cammino che vuol condurre a dire all’amico la nota frase di Merton: «In me tu non morirai!»
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Le pagine delle citazioni si riferiscono al seguente volume:
(1) Cfr R. Comte – J. Lacroix – R. Schutz et al., L’avventura dell’amicizia, Magnano (Bi), Qiqajon, 2007.
Vedi anche Norberto Galli, L'amicizia per tutte le età, Vita e Pensiero, 2004.

Il segreto dell’amicizia e la trasmissione dell’esperienza
“Da più di dieci anni sono legato a Camus. Nella costanza dei cuori esperiti, l’amicizia non fa la guardia né inquisisce. Due rondini a volte silenziose, a volte loquaci si dividono l’infinito del cielo e la stessa tettoia”
  
Il valore dell’amicizia, tra rito e segreto

Da quando anche i cavalli di Patroclo piangono insieme ad Achille l’amico morto e da quando Cristo dichiara ai suoi discepoli di volere non dei seguaci ma degli amici, e forse anche da prima, l’amicizia è un valore. Essa illumina la nostra vita e ci lega ad altre persone come solo gli affetti sanno fare. L’amicizia è un valore ma anche un sentimento.

Parlare di questo valore-affetto è quasi impossibile. Se non hai mai vissuto una grande amicizia è inutile che te ne parli, se l’hai provata è lo stesso inutile che te ne parli, perché sai, direbbe Hoelderlin, come “splende agli amici in compagnia la cena”. Proviamo comunque a dire qualcosa.

Ricorro ad Aristotele. Sembrerà strano ma credo che sia stato proprio questo vecchio filosofo a scrivere forse le cose essenziali sull’amicizia. “Essa infatti è una virtù o s’accompagna alla virtù – osserva con scultorea essenzialità e finezza – inoltre essa è cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni”. Gli amici, “due persone che insieme vanno” e fanno le “belle azioni” e così sono più capaci a pensare e ad agire. Per l’antico filosofo l’amicizia aveva tre elementi essenziali: l’utile, il piacere e il bene. Gli amici si rallegrano della compagnia reciproca, si aiutano, ma devono anche condividere un impegno comune per il bene. L’utile non dura e se il piacevole è un fondamento migliore per l’amicizia, anch’esso passa e poi l’amico viene amato non per quello che è ma per i vantaggi che procura, quando questi cessano, cessa anche l’amicizia. Per questo le amicizie sono rare, “non è possibile essere amico a molti di perfetta amicizia”, esse richiedono tempo e consuetudine. Infatti “quelli che fanno subito amicizia tra loro vogliono essere amici, ma non lo sono…la volontà di amicizia sorge in fretta, ma non così l’amicizia”. Come osserva Seneca, “l’amicizia è necessarissima ma non è in nostro potere”. Non può essere imposta o semplicemente voluta. E’ un dono, una grazia. Anche se molti nostri atteggiamenti possono predisporci ad entrare in amicizia, come altri ce ne possono sbarrare la strada, essa arriva quando vuole.

La lontananza non spegne l’amicizia ma il silenzio sì. Un troppo lungo silenzio senza telefonate o cartoline o messaggi può porre fine all’amicizia. Ciò che è comune tiene unito e l’amico è un altro se tesso di cui si vuole il bene. L’amicizia è nella realizzazione di sé mentre si collabora alla realizzazione dell’altro. Ed è proprio questo reciproco perfezionamento in vista del bene, questo terzo elemento, il vero fondamento dell’amicizia che va oltre i due amici, perseguendo il bene comune e perfezionando la città. La stessa comunità deve essere migliorata ed è avvantaggiata dall’amicizia.

Nietzsche
Mi sembra che ci sia tutto o l’essenziale per ogni discorso sull’amicizia. Anche il solitario, scontroso, aristocratico Nietzsche esalta l’amico come la festa della terra ed anche il superuomo attende con ansia l’amicizia. E nota che “nell’indovinare e nel tacere l’amico dev’essere maestro”. L’amico è colui che ti conosce e che ti vuole bene, che ti critica perché vuole il tuo bene, ti può apparire anche nemico talvolta perché vuole evitare che tu sbagli. L’amicizia è un valore che ci lega agli altri, è un valore intimo ma non esclusivamente privato: “sei uno schiavo? – dice Zarathustra – Allora sei incapace di essere amico. Sei un tiranno? Allora sei incapace di avere amici”.

Come ha scritto P. G. Giacchè ricordando la sua amicizia con Carmelo Bene, “l’amicizia non è amore. L’amicizia è una linea, mentre l’amore come si sa è una freccia. In amore ci si trova di fronte, nell’amicizia ci si situa di fianco. Due linee che si accostano per un tratto di vita e devono trovare la distanza perfetta. Più lontano o troppo vicino si sbanda e si perde quella dirittura che si chiama lealtà e che dà fiducia agli amici… La misura perfetta è quella della confidenza e insieme del rispetto, ma soprattutto è quella dell’induzione che permette un passaggio e un sostegno magnetico, che dà forza agli amici”.

L’amicizia genera forza. Nell’amicizia ci si addomestica reciprocamente, direbbe il piccolo Principe, ed ad ogni età ne abbiamo un disperato bisogno. Le amicizie si fanno, le amicizie si perdono. Ma anche se ci si allontana non si smette mai di essere amici e in ogni caso non lo si può dimenticare. “Gli amici sono maestri – ha scritto recentemente Lorenzo Pavolini ricordando il testo di R. Bilenchi Amici – sono tanti piccoli Buddha, sono la serena consapevolezza di non poter sempre continuare insieme, ma anche la mancanza più profonda quando saranno morti prima di noi, sono lo stare in silenzio, ascoltarsi e capirsi, coloro a cui non spareremo mai addosso, e che faremo sempre di tutto per salvare, sono più forti di qualsiasi divergenza politica”.

Riprendendo una suggestione di Massimo Cacciari, possiamo dire che uno dei tratti della cultura contemporanea è l’oscenità dominante. Cacciari la riferisce all’arte contemporanea che mostra la realtà nella sua completezza e finisce nell’osceno. Quasi nel senso letterale, tutto finisce sulla scena e la scena è tutto. L’oscenità nasce dal fatto che la realtà è intrascendibile. Non c’è altro, non ci può essere altro. Nel caso dell’arte contemporanea essa impedisce la contemplazione e per certi versi può essere solo vista e non contemplata perché non rimanda a nient’altro nella sua fondamentale iconoclastia. Tutto va detto e non dice altro. Anzi, tutto va detto e non ci devono essere segreti. Se hai dei segreti devi curarti! Anche questo è il postmoderno: la condanna della trascendenza che diventa la nostra condanna all’immanenza, interessante ma indifferente. In realtà, il non sapere fa parte della vita, così come il segreto e il mistero che non è quello che non si può spiegare ma che non si finisce mai di spiegare. L’amicizia è un simbolo, ovvero la migliore espressione possibile per dire qualcosa di sconosciuto. L’amicizia è custode del segreto, si basa su molte cose dette e condivise ma su altrettante non dette e proprio per questo ancor più condivise. L’amico conosce i segreti, quelli che gli hai rivelato come quelli che non gli hai rivelato. Il segreto dell’amicizia è l’amicizia del segreto. Quel trascorrere chiacchierando sere inutili come si faceva da ragazzi è ciò che salda un’amicizia. Si sfiora l’essenziale che resta indicibile ma non invisibile per gli occhi dell’amicizia. Oggetto di una comunicazione indiretta, se ne parla e discute direttamente quando entra in crisi e forse sta per finire oppure per evolvere.

Questa negazione del segreto fa tuttuno con la critica radicale del rito fatta in nome dell’autenticità. L’amicizia è legata ai rituali. Ha ragione Aristotele, se il silenzio distrugge l’amicizia, una telefonata, una cartolina, un pensiero, una battuta, un caffè preso insieme, un evento festeggiato assieme, la rinsaldano. Sono finzioni ritualistiche? Può darsi, ma senza queste finzioni l’autenticità cercata sarebbe inaccessibile anche nell’amicizia.

Amicizia e politica, un “monastero per spiriti liberi”

Uno degli aspetti più penetranti della geniale analisi aristotelica è la componente che potremmo definire politica. Noi conosciamo anche troppo bene l’amicizia politica che per certi versi è l’opposto della politica dell’amicizia. L’amicizia politica mi fa pensare nella maniera più spregiudicata che il nemico del mio nemico è mio amico. Ma questa è appunto la negazione dell’amicizia e forse anche della politica. Qui l’amicizia diventa un disvalore perché si fa ingiusta. I compagni di partito, anche quando si chiamano amici, sono parte di una macchina da guerra che antepone gli interessi di parte a quelli collettivi, strutturalmente. E’ la politica degli amici. L’amicizia politica è la politica di chi privilegia gli amici, una politica del privilegio e della corruzione, quella che ha portato ad aristocrazie senza merito come se ne conoscono molte nella storia recente.

Seguendo la suggestione di Aristotele e parafrasando quello che il suo maestro Platone scrive a proposito dell’amore, un esercito di amici sarebbe imbattibile come una città di amici sarebbe forse la migliore che si possa immaginare. Come dice un antico adagio, da soli si va più in fretta, insieme si va più lontano. Una politica dell’amicizia sarebbe possibile solo nella libertà e nel rispetto reciproci che l’amicizia comporta.

In educazione ciò che va insegnato sono sempre i valori che liberano e i valori che uniscono (Reboul). Questi sono opposti e generano alcune delle insuperabili antinomie dell’educazione, educare alla libertà ma anche all’appartenenza, educare all’autonomia ma anche alla responsabilità e così via. L’amicizia è un valore che supera questa antinomia. Molto prossima all’amore, ne possiede il carattere sempre eversivo e impolitico ma, contemporaneamente, supera l’antinomia e rende possibile una rara conciliazione tra libertà e legami, ovvero i legami liberamente scelti ed emergenti da una lunga consuetudine di vita. L’amicizia concilia ciò che libera e ciò che lega, la cura di sé e la cura dell’altro, è un legame libero e una libertà che si fa responsabile dell’altro. In questo senso una politica dell’amicizia contribuirebbe al bene collettivo perché sarebbe capace di conciliare gli interessi privati con quelli pubblici, l’iniziativa privata con il bene comune, la realizzazione di se stessi e il prendersi cura degli altri Ma l’amicizia, come l’arte, non si lascia dirigere. Come avrebbe detto Camus, al massimo la si può sopprimere.
Un'immagine "religiosa" di Zarathuštra di epoca moderna, con cenni leggendari sulla sua vita.
“Io non vi insegno il prossimo, bensì l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e un presentimento del superuomo… Io vi insegno l’amico nel quale il mondo si trova compiuto, una coppa del bene – l’amico che crea, che ha sempre da donare un mondo compiuto”. Così parla Zarathustra. Anche per un solitario come Nietzsche l’istinto aristocratico del distacco si mostra nell’attesa degli amici: nella solitudine egli spera di scorgere un suo simile cui essere amico, lo spirito libero attende con ansia degli amici. “Nell’indovinare e nel tacere l’amico dev’essere maestro”. L’amico è colui che ti conosce e che ti vuole bene, che ti critica perché vuole il tuo bene, ti può apparire anche nemico talvolta perché vuole evitare che tu sbagli. “Nel proprio amico bisogna avere anche il proprio miglior nemico. Col tuo cuore devi essergli massimamente vicino, proprio quando tu ti opponi a lui”. L’amicizia è un valore che ci lega agli altri, è un valore intimo ma non esclusivamente privato ed è anche un valore che si riverbera nella nobiltà politica “sei uno schiavo? – dice Zarathustra – Allora sei incapace di essere amico. Sei un tiranno? Allora sei incapace di avere amici”.

“E circondatevi di uomini che siano come un giardino” – osserva in Al di là del bene e del male – o come la musica sopra le acque, quando il giorno già diventa ricordo: – scegliete la buona solitudine, la libera animosa leggera solitudine, che vi dà anche un diritto di restare ancora, in qualche modo, buoni”. L’amico è colui che sta al tuo fianco e custodisce anche la tua “buona solitudine” con il pathos della distanza che non è quella invidiosa, risentita e vendicativa propria di chi è invece semplicemente un isolato.

Nietzsche è anche il genio solitario che ha parlato di una forma straordinaria di “amicizia stellare” quella di chi ha condiviso una grande amicizia e una forma profonda di condivisione che poi è andata perduta. “Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così…noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto”. Allora le due navi sono state placidamente all’ancora condividendo lo stesso porto e uno stesso sole e una stessa meta. Poi il viaggio è ripreso e i due amici sono stati sospinti dal loro destino in direzioni diverse, seguendo stelle diverse. Potrebbe anche accadere che essi non si rivedranno più oppure che, rivedendosi, non si riconoscano, tanto sono stati mutati, divenendo degli estranei. Eppure, osserva a tale proposito Nietzsche, “esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui potrebbero essere ricomprese, quasi esigui tratti di strada, le nostre diverse vie e mete”. Andando oltre la troppo breve orbita della vita e del suo veloce volo, potrebbe esistere un’altra dimensione in cui le amicizie, apparentemente finite ed interrotte, continuano invece a condividere un’immensa e più comprensiva orbita. “E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro”. Nell’infinito, un’amicizia non si interrompe mai, si è amici per sempre.

Nietzsche vede anche l’implicazione pedagogica dell’amicizia, quando teorizza e ne scrive ai suoi amici, prefigurando un vero e proprio “monastero degli spiriti liberi”. Anche qui, con un bellissimo ossimoro, tende l’arco della tensione tra la vita monastica con le sue rinunce e i suoi esercizi spirituali e la vita superomistica dello spirito libero capace di fondere il sacro, l’artista e il saggio, un luogo speciale dove condividere con i propri amici la Fröhliche Wissenshaft, la gaia scienza. Una specie di nuova accademia greca, una claustrale comunità artistica, un nuovo monastero come scuola dove gli educatori educano se stessi. Un luogo dove poter realizzare il “congiuntivo categorico” che preside ad ogni trasformazione. Un monastero come metafora, ovvero un meccanismo che utilizza ciò che si conosce per poter afferrare il nuovo, il non ancora conosciuto, dove intraprendere una forma inedita di noviziato, dove coniugare l’autocontrollo con la ricerca di sé. Un progetto politico che è anche e sempre un progetto di educazione e di amicizia, “amicizia e legami amicali come compensazione religiosa” (H. Treiber). Il monastero è scelta elitaria e isolamento, come rifiuto del proprio tempo, ribellione nei confronti dell’adattamento cittadino, una via maestra al sovrannaturale, “con l’idea della purezza davanti agli occhi, sempre come un qualcosa magnifico”. Utilizzare forme di educazione del passato medievale per affrontare il moderno disincantato. Un arcaico futuro, questo forse immaginava Nietzsche per sé e per i suoi amici.

Quello che va insegnato – e qui sta la famosa polemica nietzscheana con un amore del prossimo diventato retorica e gesticolazione etica – non è l’amore del prossimo ma del remoto, del futuro, di quello che con l’amicizia si può costruire assieme. C’è un amore del prossimo che è un cattivo amore per noi stessi, dice Nietzsche. L’amicizia è nella realizzazione di sé mentre si collabora alla realizzazione dell’altro. Come osserva M. Riedel, non è l’amicizia stessa a venir cantata ma il desiderio ardente da parte di colui che crea di avere amici che creino insieme a lui.

E, nonostante il tentativo nietzscheano di pensare al di fuori della metafisica occidentale, nel caso dell’amicizia ci sembra di poter vedere dei punti di contatto con il già citato Aristotele. Ciò che è comune tiene unito e l’amico è un altro se stesso di cui si vuole il bene. L’opposto di un amico è un adulatore. Si ama e si vuole il bene del proprio amico, ma si vuole elevare il proprio standard morale volendo il bene del proprio amico. Ed è proprio questo reciproco perfezionamento in vista del bene, l’amicizia secondo virtù, il vero fondamento dell’amicizia che va oltre i due amici perseguendo il bene comune e perfezionando la città, la stessa comunità. Secondo R. Bellah, oggi anche nell’amicizia domina prevalentemente l’elemento dell’utile e del piacevole, mentre l’elemento morale viene meno. Egli parla della necessità di un’amicizia civica: l’amicizia e le sue virtù non possono essere solo private ma devono essere pubbliche imprese collettive per il bene comune.

Condividere e trasmettere l’esperienza

C’è un altro elemento dell’amicizia che la collega alla dimensione professionale. L’amicizia comporta la condivisione di esperienze e persino la fusione di un orizzonte di significato. L’amicizia comporta tempo, forse anche per questo oggi si trova in difficoltà. La fiducia su cui riposa ha bisogno una lunga vita condivisa. Certo, il già citato Aristotele si interroga sul fatto che una grande disparità, una grande asimmetria tra gli amici può rendere difficile o inquinare questo sentimento. Eppure non lo rende impossibile. Anzi, forse esiste la possibilità che, ad esempio, tra maestro e allievo, si crea, dopo molto tempo, una forma particolare di amore e di amicizia. Questo può accadere anche all’interno dei gruppi di lavoro. Mentre il leader governa il gruppo e trasmette il suo sapere e il giovane cresce, tra i due si creano dei legami che, quando evolvono in maniera positiva, diventano amicizia. Si lavora meglio in un gruppo di amici, allora il lavoro assume alcune preziose caratteristiche che lo avvicinano al gioco. Un gruppo di amici è più creativo, più esplorativo, sopporta probabilmente meglio il fallimento e la frustrazione., Possiede una maggiore intelligenza collettiva il cui risultato è probabilmente, come tutti i valori emergenti, maggiore della somma delle sue componenti. Certo, l’amicizia è di solito onnicomprensiva, non vede e non tollera la divisione tra tempo libero e tempo di lavoro, tra vita privata e vita professionale, eppure nelle sue infinite sfumature c’è posto anche per questo. La condivisione di un lavoro può generare nei casi migliori amicizia, e l’amicizia rende quel lavoro attraente.

John Dewey
La condivisione è una parola importante se noi la colleghiamo ad un altro termine decisivo che è esperienza. Condividere significa impegnarsi insieme e non solo prender parte ad una esperienza comune. Il condividere delle esperienze è il cemento dell’amicizia. Dalle esperienze l’amicizia è messa alla prova, nelle esperienze si rivela. Ma, che cos’è l’esperienza? Quando è che noi facciamo esperienza? La domanda ha impegnato alcune delle più grandi menti della modernità. In campo pedagogico il pensiero va immediatamente a Dewey che ne ha fatto il fulcro della sua filosofia e di una pedagogia basata sul principio dell’imparare dall’esperienza. Non ogni esperienza è educativa così come non basta fare qualcosa perché questo qualcosa diventi esperienza: il fare per il fare non produce esperienza oppure esperienze diseducative. Questo equivoco aveva fatto insabbiare lo stesso attivismo statunitense nelle secche non solo dell’anti-intellettualismo ma nella vera e propria stupidità, costringendo lo stesso Dewey a tornare sul tema ricordando che tutto dipende dalla qualità dell’esperienza. Il vero valore dell’esperienza comporta un progetto e una memoria, un proposito capace poi di produrre significato capace di far crescere la persona. Per cui, come avrebbe detto Aldous Huxley, l’esperienza non è quello che succede a un uomo, ma è quello che un uomo realizza utilizzando quello che gli succede. Noi facciamo sempre esperienza di qualcosa, non possiamo fare a meno di fare esperienza nella nostra vita ma, paradossalmente, possiamo non incontrala mai, la facciamo sempre ma potremmo non averla mai. Essa appare qualcosa di sfuggente.

Il concetto di esperienza è un concetto denso e ricco come quello di vita e di amicizia. Seguendo la ricostruzione che ne ha fatto Paolo Jedlowski, si può dire che “l’esperienza è l’insieme della nostra esistenza e del movimento con cui proviamo a comprenderla”. Essa ha molte sfaccettature. C’è l’esperienza degli esperti e c’è l’esperienza come vissuto eccezionale, c’è l’esperienza individuale e c’è quella collettiva, c’è l’esperienza che è quello che danno per scontato alcune persone che hanno vissuto assieme e che va a comporre il senso comune e c’è l’esperienza che se ne distacca. C’è un’esperienza che non è consapevole e c’è un’esperienza che è riflessione e ascolto della propria presenza. L’esperienza rimanda però ad un sapere che appare sempre situato, ovvero non collocato nel vuoto ma nel pieno delle relazioni e dei legami. L’esperienza però non è un sapere che si ha ma è qualcosa che pian piano si diventa. Essa è legata ad un sapere che è un saper fare.

Il concetto di esperienza ha subito delle metamorfosi radicali nell’età moderna. La scienza ha separato l’esperienza soggettiva, che poteva collegare l’uomo alla saggezza, dalla conoscenza oggettiva, scientifica. Il sapere a cui la scienza mira non deve appartenere a nessuna comunità, è universale e razionale. Ma nel mondo tedesco questa opposizione ha poi generato un’altra opposizione che si è legata a due parole che la lingua tedesca possiede per definire l’esperienza: Erfahrung ed Erlebnis. Dilthey se ne è servito per aprire alle scienze umane un campo che è quello della comprensione. L’Erlebnis è l’esperienza vissuta, la scienza che spiega il comportamento è diversa da quella che lo spiega comprendendone il significato. E’ legata all’esperienza puntuale della coscienza, mentre la seconda si accumula nel tempo, si acquisisce con l’esercizio e deve essere elaborata.

Paolo Jedlowski
L’età moderna segna una frattura anche in questo caso. Il senso comune è svalutato, la tradizione anche. L’esperienza scientifica oggettiva si separa da quella soggettiva. Questa, a sua volta si separa dalla comunità. Tra l’esperienza che coincideva con una tradizione e quella moderna che coincide con la storia dell’individuo. Questa nuova condizione dell’esperienza, tra l’altro, è caratterizzata dall’infinito processo di accumulazione dell’esperienza che non approda mai alla saggezza. E’ possibile il progresso, ma non la verità ultima. Dopo quello che Foucault chiama il momento cartesiano, in cui la conoscenza di sè si separa dalla cura di sé e prende su questa il sopravvento, il soggetto può conoscere la verità ma questa non ha più il potere di salvarlo. La morte stessa non compie più la vita permettendo ad ognuno di morire “stanco e sazio” come i patriarchi dell’Antico Testamento. “Situarsi nel progresso tende a rendere assurda la morte. Essa non compie una vita, ma la interrompe. Tuttavia, se la morte è assurda., l’assurdità si riverbera sull’intera vita incivilita” (Jedlowski).

L’esperienza moderna si frantuma ed è fatta spesso di seconda mano, altrettanto spesso mediata e mediatica, sfuggente ed invadente al tempo stesso, eccedente ogni possibilità di elaborazione personale. L’esperienza dello spettacolo e del consumo è un’esperienza che fa sempre sorgere il dubbio legittimo sul suo essere realmente vissuta. L’esperienza e il senso tendono a divaricarsi, “la modernità, nel suo nucleo più profondo, è stata questo: il progetto di un’emancipazione, e il sospetto di una catastrofe” (Jedlowski)

Nel termine esperienza c’è sempre il rimando a qualcosa che sta al di qua delle parole e quindi al di qua di ogni teoria. L’esperienza è una sintesi nella quale i contenuti della memoria individuale si fondono con quelli della memoria collettiva. Essa è un saper fare pratico che incorpora nel soggetto attività ripetute. E’ un passato presente utile anche per il futuro. E’ quella “dimensione tacita del sapere” (Polanyi), posta al di qua o al di là del dicibile, che sta al cuore del lavoro dell’uomo artigiano (Sennett) capace di unire la mano e la mente, il fare e il sapere, come superamento dell’antitesi tra l’umanista letterato e il tecnico esperto. Quella dimensione che sta al cuore della modalità incancellabile che è l’apprendistato, mezzo privilegiato dell’educare con il lavoro (Regni).

La dimensione tacita della conoscenza ed il sapere incorporato nell’esperienza pongono il problema della loro trasmissione. Questa può avvenire meglio se non quasi esclusivamente in un luogo che ieri era la bottega ed oggi sono le forme moderne di apprendistato che si presentano anche come comunità di pratica.

Il senso in comune nelle comunità di pratica

Ci sono degli apprendimenti che derivano dall’esperienza e si accumulano nelle persone che raggiungono una certa competenza e che possono essere trasmesse da una generazione ad un’altra. Si tratta di esperienze familiari e date per scontate in quanto appartengono alla dimensione soggettiva del nostro conoscere e imparare attraverso la partecipazione a sistemi sociali di apprendimento. Questi sono stati definiti da E. Wenger attraverso il concetto o costrutto di “comunità di pratica”. Si tratta dello stretto rapporto che si crea tra esperienza e competenza all’interno di una comunità di apprendimento che rivela quanto l’esperienza sia sempre situata. A questo costrutto si collega una teoria dell’apprendimento sociale secondo la quale esiste una fondamentale praticità della teoria, è quello che Bourdieu avrebbe chiamato “il senso pratico”, una credenza che scivola in maniera clandestina nei corpi di chi partecipa alla pratica. La conoscenza non è data solo da informazioni esplicitamente archiviate nel cervello ma da una partecipazione attiva alle comunità sociali. L’apprendimento è quel processo denso e in gran parte misterioso in cui intervengono la pratica (apprendimento come azione), il significato (apprendimento come esperienza), l’identità (apprendimento come divenire) e la comunità (apprendimento come appartenenza). Il concetto di pratica connota il fare, non solo il fare in sé ma un fare in un contesto storico e sociale che dà struttura e significati alla nostra attività. Questo concetto di pratica include quello che un tempo nella ricerca didattica sarebbe stato definito il “curriculum occulto”, ovvero la pratica comporta sia l’esplicito che il tacito. Include anche le relazioni implicite, le convenzioni tacite, le allusioni sottili, le regole empiriche inespresse, le intuizioni riconoscibili, le percezioni specifiche, le sensibilità consolidate, le intese implicite, gli assunti sottostanti e le visioni comuni del mondo. Si tratta di un sapere rubato, ma anche e soprattutto di un sapere emergente che interagisce in maniera decisiva con il sapere deliberato e pianificato. Ecco, tra l’altro, che èpotrebbe avere ragione Wenger quando scrive “l’insegnamento dev’essere opportunistico perché non è in grado di controllare i propri effetti…opportunismo non significa lassismo”. Molte di queste conoscenze non potranno mai essere esplicitate ma faranno parte di un patrimonio che potrà essere trasmesso, nell’apprendistato, nella vicinanza, nell’amicizia di un’esperienza fatta assieme.

Da queste pratiche dipende in gran parte anche il successo della formazione e della professionalità. “Tali pratiche sono dunque patrimonio esclusivo di una sorta di comunità, creata nel tempo dallo svolgimento continuativo di un’attività in comune. E’ corretto, pertanto, definire tali aggregati come comunità di pratica” (Wenger). Il concetto di pratica non si schiera per nessuno dei due poli della dicotomia tradizionale, attività manuale o mentale, concreto o astratto, pratico e teorico, realtà o ideali, fare o dire. “La pratica non è immune dall’influenza della teoria, ma non è né una mera realizzazione della teoria, né un’incompleta approssimazione ad essa” (Wenger).

Si tratta di una circolarità virtuosa e mai definitivamente compiuta tra conoscenza della pratica e pratica della conoscenza. Le comunità di pratica strutturano delle conoscenze che sono situate al loro interno, sono distribuite dentro la comunità, sono custodite e trasmesse da relazioni sociali e tradotte in artefatti e routine. C’è una parte di conoscenza situata e locale, tacita e implicita, traslata e processuale del fare che dà struttura e significato alla nostra esperienza. Si tratta di conoscenze e competenze sia esplicite che implicite che risultano in parte da costanti transazioni con gli altri nel contesto. L’artefatto, la tecnica e la stessa capacità esprimono ma non esauriscono la pratica. Questa è fatta dal partecipare ad un’impresa comune, dall’impegno reciproco e da un repertorio condiviso. Si tratta quindi di un apprendimento in situazione che comporta la continua negoziazione di significati. Conoscenze e tecniche ma anche storie che servono ad interpretare ciò che rimane e rimarrà ambiguo. Per questo “le comunità di pratica si possono assimilare a storie condivise di apprendimento” (Wenger).

L’autore svizzero aggiunge ai concetti già elaborati a suo tempo da M. Polanyi e da P. Bourdieu, e rivisitati ancora di recente da R. Sennett, relativi all’ineffabilità di una conoscenza fatta di gesti e completamente inscritta nei corpi in una perfetta unità psicofisica, un elemento di psicologia sociale che è la comunità di pratica. Interessante ai fini del nostro discorso è come le comunità di pratica affrontano la discontinuità generazionale. La negoziazione dei significati al suo interno è un processo aperto, potenzialmente sempre in grado di includere nuovi elementi ma è anche un processo di recupero, sempre in grado di proseguire, riscoprire o riprodurre il vecchio nel nuovo. La pratica è una storia condivisa di apprendimento che richiede un certo sforzo di partecipazione, non è un oggetto materiale che si passa da una generazione all’altra. “Le comunità di pratica riproducono la loro composizione nello stesso modo in cui si è determinata in origine. Condividono la loro competenza con le nuove generazioni attraverso una versione dello stesso processo con cui si sviluppano” (Wenger). E’ un modo per riattingere alle intuizioni originarie, un modo per far sì che l’origine viva sempre. L’incontro generazionale appare decisivo e questo può avere tutto il suo valore formativo e trasformativo se avviene in un comunità di pratica che potremmo allargare alla comunità amicale di apprendimento o all’amicizia professionale di cui si va alla ricerca in questo volume. La comunità di pratica è un contesto vivente che può consentire ai nuovi arrivati l’accesso alla competenza e un luogo privilegiato per la creazione di conoscenze.

Dalla terza alla prima persona: un’esperienza di formazione montessoriana

Maria Montessori
“Il dono dei grandi maestri è promuovere una tale partecipazione da far diventare patrimonio personale ciò che essi insegnano” (Wenger). Questo può essere confermato da tutti coloro che nel corso della loro formazione ma anche semplicemente della loro vita hanno avuto la fortuna o il destino di incontrare dei grandi maestri e magari di esserne diventati discepoli. Questo è successo a tutti coloro che hanno avuto la ventura di incontrare, ad esempio, Maria Montessori, il cui carisma e potere spirituale oltre che prestigio intellettuale non hanno lasciato indifferenti neanche coloro che hanno avuto con lei solo fugaci contatti e quindi, a maggior ragione, le sue allieve dirette. Passando ora dalla terza alla prima persona, vorrei dire che ho avuto la fortuna di incontrare alcune di queste grandi allieve di Montessori e di una di esse mi vorrei credere allievo a mia volta. Ma non è questo aspetto autobiografico a giustificare il passaggio grammaticale alla prima persona, ma il fatto di esserne stato testimone. Parlo infatti anche di altre allieve di Montessori, alcune ricercatrici e formatrici eccezionali ma anche di semplici, si fa per dire, insegnanti di Casa dei Bambini e di scuola elementare o di nido che hanno però avuto una formazione montessoriana in corsi di alto profilo diretti proprio da alcune di queste allieve storiche che, come la loro maestra Montessori, hanno fatto del formazione degli insegnanti e dei genitori una missione per la vita. La base di questi corsi di formazione per insegnati montessoriani, affinata dalla Montessori stessa in lunghi decenni in tutto i mondo, aveva un proprio programma, l’uso dei materiali, le osservazioni, il tirocinio oltre che lo studio dei testi montessoriani. Il tutto si concludeva con la redazione di un "Album" personalizzato realizzato dalle allieve alla fine del corso. Ogni allieva storica di Montessori, pur vivendo nel culto e nello studio della maestra, aggiungeva una sfumatura personale che poi diventava routine. Si può pensare poi ad una più segreta accensione del potenziale umano di ognuna delle allieve legata al contagio e all’iniziazione da parte di chi a sua volta aveva ascoltato la propria vocazione. Anche in questo caso, l’apprendimento e la trasmissione di un metodo comporta una routinizzazione del carisma, ovvero quello che è extra-quotidiano, eccezionale, legato appunto al carisma di una personalità non comune, diventa gesto, metodo, regola, modo di fare, vita pratica, in una parola, routine. In questi corsi, di cui sono stato testimone, si realizzava una vera e propria comunità di pratica. In quanto tale, questa comunità, anche se solo temporanea, legata ai nove mesi del corso, riusciva a trasmettere quella dimensione tacita, quel sapere, pratico, quel sapere non dicibile, non proposizionale, arricchito dal contributo delle persone che lo trasmettevano da generazione a generazione. Questo patrimonio è un patrimonio vivente, legato a persone in carne ed ossa, trasmesso in maniera viva. Sì, può essere affidato alle pagine di un manuale, oppure ad uno scritto ma è in gran parte trasmissibile solo da anima ad anima, da vita a vita, da maestro ad allievo. Perché il sapere appreso non è solo competenza ma anche venerazione, coinvolgimento in un progetto che ci trascende.

E’ così che il Montessori, nelle forme migliori dei corsi di formazione che oggi si svolgono nel mondo, riesce ad unire scienza e tradizione. Quella montessoriana è una comunità scientifica che lavora all’interno di un paradigma per l’educazione, che sperimenta e mette in pratica un’esperienza sperimentalmente validata. Essa lavora sui fronti fluidi della ricerca psicopedagogica, alimentandosi delle scoperte più recenti della ricerca empirica delle scienze del comportamento umano e delle neuroscienze. E’ una comunità scientifica che ha accumulato nel tempo una serie di conoscenze stabilizzate, validate e in via di arricchimento e conferma. Ma, oltre a questo, permette di sedimentare esperienze attraverso una comunità di pratiche. Ovvero un insieme di persone che hanno ricevuto, rielaborato, vissuto ed arricchito con la loro vita e con il loro lavoro l’imprinting formativo e metodologico iniziale, l’accensione spirituale iniziale. Queste persone, eredi di una grande tradizione e di una sempre nuova ricerca, possiedono un sapere tacito che unisce in maniera indivisibile la mente e la mano nel gesto e nella sensibilità educative. Questo sapere non è mistico o esoterico, può essere appreso e soprattutto deve essere trasmesso da una generazione all’altra, perché anche le nuove insegnanti possano assimilare questo nutrimento che è capace di fare la differenza. Può essere una sfumatura, ma è quella sfumatura decisiva che può impedire alla lettera di ossificarsi senza lo spirito e allo spirito di evaporare senza una lettera che lo incarni. Interrompendo questa trasmissione diretta sicuramente qualcosa di molto importante andrebbe perso. Della fiamma potrebbe rimanere solo la cenere e la riserva del miele di una tradizione accumulata sapientemente nel corso del tempo potrebbe rimanere inaccessibile. E’ questa una forma particolare di amicizia professionale, in cui la tecnica e la libertà non si escludono. L’esperienza soggettiva, singolare, si coniuga con la conoscenza oggettiva, condivisibile. Questo genere di esperienza collettiva è la sedimentazione di dati e l’elaborazione di vissuti all’interno di una comunità amicale.

Walter Benjamin
Certo, la comunità di amici potrebbe essere una contraddizione perchè l’amicizia è sempre individuale, unica ed esclusiva. E’ frutto di una scelta libera e di un affetto sincero. La comunità è invece più spesso ascritta, il destino mi ci fa nascere. Ma nel contesto globale montessoriano di oggi i due elementi si fondono. Montessori è una tradizione. Chi ha esperienza, diceva Benjamin, è capace di narrare, e di prestare ascolto a ciò che altri narrano. L’educazione allora “è l’investimento di una comunità nel proprio futuro, non come riproduzione del passato attraverso la trasmissione culturale ma come formazione di nuove identità che possono portare avanti la storia di apprendimento” (Wenger).

Montessori rappresenta al tempo stesso una tradizione legata ai testi, ad un’esperienza fondante, ma è anche un paradigma scientifico legato ad una comunità scientifica così come un sapere dell’esperienza trasmesso da una comunità amicale che accumula e trasmette nel tempo una serie di conoscenze tacite ed implicite ma indispensabili nella realizzazione di un progetto educativo. Il messaggio educativo montessoriano e la comunità scientifica e di pratica che ad esso si sono connesse nel tempo, incarnano non solo un sapere esperto intorno ad un metodo, ma una visione del bambino e dello sviluppo umano la cui portata travalica l’ambito della didattica e della stessa pedagogia per farsi per farsi geopedagogica. Esso sembra incarnare quanto dice Wenger, “le comunità di pratica non andrebbero ridotte a entità puramente strumentali. Hanno per oggetto il conoscere, ma anche lo stare insieme, il vivere in maniera significativa, lo sviluppo di un’identità soddisfacente e l’esplicitazione della natura umana”. Al suo interno è possibile un’autentica esperienza di significato, una reciprocità di impegno, una responsabilizzazione nei confronti di un’impresa che non è solo educativa e formativa ma trasformativa.

Nel contesto montessoriano, anche gli adulti fanno esperienza di quella unione così naturale per il bambino tra gioco e lavoro, tra libertà e impegno, possibilità e serietà, creatività e sforzo. Anche per gli adulti del variegato mondo degli esperti, insegnanti e professionisti montessoriani il gioco, il lavoro e le attività ludiformi spesso coincidono dando vita ad un’esperienza ricca di soddisfazioni. L’esperienza degli insegnanti più maturi collega il proprio lavoro a quello che era ed è un mestiere, frutto di esercizio e sviluppo di un percorso reale di formazione umana e professionale. Un mestiere capace di risvegliare i significati che dormono, di cogliere nelle pieghe delle esperienze vissute dai bambini tutta la ricchezza del potenziale umano, accompagnando la loro scoperta del mondo con la nostra scoperta dell’infanzia.

Se l’esperienza tradizionale era immersa in una dimensione comunitaria e quella moderna era ed è legata all’individuo, nel contesto montessoriano è possibile ed auspicabile una loro convergenza. In più cementata dall’amicizia. La conoscenza e il senso finiscono per coincidere nel messaggio educativo montessoriano ed anche nell’esperienza di chi lo condivide. Quella montessoriana è una via che cerca di superare la scissione moderna tra sapere scientifico e valore umano verso un qualcosa che si chiama saggezza. Essere fedeli alla propria esperienza è però un ritrovarsi sempre di nuovo. Quindi, comunità scientifica e comunità di pratica, insieme.

Montessorianamente si può condividere l’afflato poetico con cui Wenger conclude la sua ricerca e noi la nostra esposizione. “Nel potere vivificante della reciprocità sta il miracolo della condizione di genitori, l’essenza dell’apprendistato, il segreto dell’incontro generazionale, la chiave della creazione di connessioni tra confini di pratica: un fragile ponte che scavalca l’abisso, una lieve infrazione alla legge, un piccolo dono di fiducia immeritata – è quasi un teorema d’amore che possiamo aprire le nostre pratiche e le nostre comunità agli altri (nuovi arrivati esterni), invitarli nelle nostre identità di partecipazione, lasciare che diventino ciò che non sono, e iniziare così ciò che non si può iniziare”.


*Fonte: Saggio incluso in A. De Dominicis (a cura di), Amicizia e professione. Contributi al dibattito sul sociale, Edizioni Del Faro, Trento, 2013, pp.119-137.
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Riferimenti bibliografici
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Treiber H., Il monastero di Nietzsche degli “spiriti liberi”. Weber e Nietzsche come educatori, trad. it., in H. Treiber (a cura di), Per leggere Max Weber, trad. it., Cedam 1993
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