AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
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Saturday 6 February 2016

PASOLINI, RE MIDA

L'Italia è un paese senza memoria e senza verità (Pasolini)
 La grande energia che l'opera di Pasolini continua a trasmettere nel mondo è dovuta alla pluralità di campi d'intervento, alle incursioni piratesche in terreni al di fuori delle sue competenze e di mostrare le incoerenze, i punti deboli del sistema, e soprattutto la sua capacità di porre dubbi, seminare interrogativi, abbattere verità accettate convenzionalmente. Pasolini era uno straordinario uomo-orchestra, un re Mida che dominava i materiali espressivi più eterogenei, trasformandoli al minimo contatto. ~(Gian Piero Brunetta, in Cent'anni cinema italiano, Laterza, Bari 1991 - p. 494)

Sto cercando di riscoprire il Pasolini che mi affascinò in gioventù... A fine settimana (ri)aprirò le pagine di Una vita violenta, per vedere quali nuove immagini mi porterà alla memoria. Ho amato e amo il poeta Pasolini, meno il cineasta coi suoi film minimalisti e rasenti lo squallore di un realismo troppo pessimista; lo scrittore mi deve tornare addosso - non mi sovviene con emozioni o sensazioni, eppure il suo romanzo si svolge in un mondo che mi circondava da giovane, nella cruda realtà di un paesello della periferia romana del 1950, Pietralata, una realtà fatta di miseria e vissuta in prima persona da Pasolini stesso, anch'egli in giovane età...

UNA VITA VIOLENTA di PIER PAOLO PASOLINI:
L'IMPOSSIBILE SOGNO DI UNA COSA

Fin dalla pubblicazione nel 1964 di Letteratura e ideologia in cui Gian Carlo Ferretti, riesaminando i giudizi anteriori alla luce di una più approfondita e serena analisi dei testi, approda a una più sfumata valutazione dei due romanzi «romani» di Pasolini, è diventato un po' un luogo comune opporre la estrema severità della critica marxista militante nei confronti dei Ragazzi di vita all'accoglienza, da certi considerata eccessivamente favorevole, riservata appena quattro anni più tardi a Una vita violenta1.

Accusato addirittura da Giovanni Berlinguer di mistificare il lettore riducendo le borgate a un mondo del tutto emarginato e disperato, e tacendo «come il Partito e l’organizzazione giovanile comunista hanno mutato, in un decennio, la mente e il cuore di tante migliala di ragazzi e di uomini»2, Ragazzi di vita è denunciato non solo per l’equivoco naturalismo delle sue scelte linguistiche, per l’interesse quasi morboso con cui si appunta « sugli aspetti più sporchi, abbietti, sordidi, scomposti e torbidi di quel mondo »3, per il troppo vistoso e sostanzialmente intellettualistico compiacimento con cui l'autore contempla e descrive la sua materia, ma soprattutto per il suo fondamentale a-storicismo reso vieppiù evidente dall'assenza di uno « svolgimento narrativo » e di un eroe «positivo», e in fin dei conti per quella che Salinari chiama la « inadeguatezza della ( ... ) ideologia » di un Pasolini succube « del mito decadente del primitivo, dello spontaneo, dell'immediato »4. All’uscita poi di Una Vita violenta, nel 1959, il mutamento di tono da parte dei critici marxisti è radicale, come se – al contrario di quanto ampiamente dimostreranno le analisi più approfondite dei critici successivi, da Ferretti e A. Asor Rosa in poi5 – si trovassero di fronte a un'opera anch’essa radicalmente diversa, sia per materia che per ispirazione, dalla precedente. È giusto osservare subito, anticipando su quanto si avrà modo di precisare meglio in seguito, che in Una Vita violenta non mancano elementi obbiettivi per spiegare, se non sempre giustificare, un tale reciso subentrare di un coro d'elogi al precedente coro di critiche acerbe, poiché, con una programmaticità fin troppo meccanica e scoperta, Pasolini ora «punta al romanzo sociale, con una struttura ottocentesca ed un personaggio»6 : non solo, da una raccolta di tipo saggistico, di espisodi prevalentemente corali, si approda a un romanzo con una trama nel senso più classico della parola, incentrata su un eroe «positivo», ma il mondo e la vita dei ragazzi di vita si trovano ora debitamente ancorati in una società storicamente ben delineata con la quale hanno da fare concretamente i conti. E va aggiunto che lo stesso Pasolini, nei mesi contemporanei dell’uscita di Una Vita violenta, non si perita di presentare il romanzo come il frutto di una sua adesione incondizionata alle prospettive ideologiche marxiste7, come se, dimenticate o sormontate le contraddizioni confessate pochi anni prima ne Le Ceneri di Gramsci e le polemiche dei saggi pubblicati su «Officina »8, egli avesse definitivamente accolto la lezione impartitagli dagli intellettuali del PCI nelle loro recensioni di Ragazzi di vita. Tutto avviene, insomma, come se, applicandosi nel suo nuovo romanzo a eludere una per una tutte le critiche mosse al precedente e ad adeguarsi puntualmente alle norme dell'ortodossia marxista desumibili da tali critiche, Pasolini cercasse in qualche modo consapevolmente di ottenere, proprio da quei critici che l’avevano precedentemente stroncato, l'attestato di benemerenza marxista che effettivamente gli viene pressocché concordemente rilasciato; come se, dopo i dissensi e le polemiche degli anni precedenti, Una vita violenta costituisse da parte di Pasolini, se non un atto di resipiscenza, una specie di moneta di scambio in una trattativa implicita: dimostrazione pubblica di sottomissione al dogma socialista contro riconoscimento pubblico di ortodossia marxista. Con questo non si vuol dire né che i critici comunisti siano ingenuamente incappati in un tranello, né tanto meno che Pasolini abbia cinicamente pensato di imbrogliare i critici. Poiché, tranello o meno, un'opera è quello che è e va giudicata, per quello che è o sembra di essere a prima vista, con magari una qualche superficialità dovuta non a ingenuità di sorta, ma alla mancanza di un distacco che solo ulteriori e più approfondite analisi possono consentire di acquistare ; e peraltro se, come vedremo più precisamente dopo, sia la rigorosa organizzazione narrativa del romanzo che la sua quanto mai rigida, schematica e perfino semplicistica progammazione ideologica stanno a testimoniare un evidente calcolo da parte dell'autore, niente autorizza a tacciare di cinismo un tentativo di adeguamento all'ortodossia marxista probabilmente destinato a verificare sperimentalmente delle convinzioni personali più che all'edificazione o inganno altrui.

Resta che, confrontata sia con la produzione pasoliniana – segnatamente poetica – contemporanea della composizione del romanzo che con il resto di una carriera contrassegnata da quello che Pasolini stesso chiamerà più tardi il suo «marxismo mai ortodosso»9, la vistosa e programmatica ortodossia di Una vita violenta appare addirittura un unicum e, per la sua stessa eccezionalità, un unicum sospetto. Fin dagli anni immediatemente posteriori all'uscita del romanzo, a cominciare dagli stessi marxisti (Ferretti, Asor Rosa), i critici hanno avviato un processo di ridimensionamento degli elogi insufficientemente sfumati tributati all'opera da una critica a diretto contatto con la realtà ; e così non solo si è trovata ricondotta a più giuste proporzioni la pretesa frattura fra Ragazzi di vita. e Una Vita violenta, ma anche «l’asse ideologico orientato verso il socialismo» in cui C. Salinari aveva avvertito una delle proposte maggiormente positive del secondo romanzo è stato ridotto a una semplice «tensione continuamente contrastata e contraddetta verso un mondo di valori storici e razionali emblematizzati nel marxismo»10. Mi pare tuttavia che ancora non si sia abbastanza approfondita l'indagine sui rapporti fra Ragazzi di vita e Una vita violenta, su quanto del primo romanzo permane nel secondo, sulla frattura poi che solo a un certo punto si delinea, fra quella che io chiamerei l’eredità dei Ragazzi di vita e una nuova prospettiva decisamente storicizzata ed ideologizzata, visibilmente destinata a ricuperare ed integrare la materia precedente, e poi sugli esiti finali di un tentativo programmatico a parer mio tutt'altro che riuscito, in quanto, lungi dall'approdare alla progettata integrazione dell'eredità dei Ragazzi di vita, riesce solo a esacerbare ulteriormente la disperata visione del mondo delle borgate delineata nel precedente romanzo.



1. L’eredità dei Ragazzi di vita.

Fino all'arresto e all'imprigionamento di Tommaso Puzzilli (cioè per tutta la prima parte del romanzo, poiché, se vengono evocati nell'iniziale lungo flash-back della seconda parte, arresto e imprigionamento idealmente si ricollegano alla prima parte di cui costituiscono la logica conclusione), la vita del ragazzo e quella dei compagni non differiscono sostanzialmente da quella del Riccetto e degli altri Ragazzi di vita.

Certo, attività ed episodi messi in scena non possono essere esattamente gli stessi, anche perché Una Vita violenta inizia proprio quando la vicenda di Ragazzi di vita sta per finire: il capitolo primo di Una vita violenta si svolge infatti nel '49 (Tommaso è allora tredicenne) mentre il Riccetto, diciottenne o diciannovenne, sta in prigione dove resterà fino alla primavera dell'anno successivo; e il secondo capitolo poi si svolge probabilmente un due o tre anni dopo, quando la vicenda dei Ragazzi di vita è ormai finita. È vero, peraltro, che l’accresciuta varietà degli episodi narrati nella prima parte di Una Vita violenta sta a testimoniare la tanto più ampia ed approfondita esperienza delle borgate e delle notti romane acquistata nel frattempo da Pasolini, nonché forse una maggiore scaltrezza nell'osservazione e nella resa sociologica del mondo in cui si svolge la vita del suoi «eroi»: scuola, manifestazioni politiche, teppismo notturno, prostituzione, ecc. Ma, mutatis mutandis, fra la vita del Riccetto e quella di Tommaso fino ai loro rispettivi imprigionamenti non corre una differenza di natura. La varietà delle avventure non implica una diversità dei comportamenti, e perfino certi tic espressivi e descrittivi di Pasolini stanno a testimoniare la continuità della materia e il persistente sentimentalismo dell'autore di fronte ad essa. Si vedano in proposito le acute osservazioni di Asor Rosa11 riguardanti: le persistenti interpolazioni «di espressioni dotte, intellettuali, che gettano una luce, ma ambigua e sospetta, di trasfigurazione ideale sulle funzioni e sui personaggi» ; le «vene ostinatamente risorgenti di compatimento populista »; i residui di infantile sentimentalismo, per cui «basta che un cielo stellato si apra sulla sua testa, perché (Tommaso) si senta commuovere come un bambino o come un intellettuale decadente» (nell'epilogo del capitolo IV). Si veda soprattutto quanto dice ancora Asor Rosa di «una disposizione di spirito che si compendia nel definire il plebeo povero, poveraccio, con tutte le implicazioni etiche ed ideologiche che questi termini comportano», e le sue serie parallele di citazioni estratte dai Ragazzi di vita e da Una vita violenta come riprove della analoga frequenza, nei due romanzi, di questi due termini, usati significativamente «in una accezione non tanto connotativa (come sarebbe da aspettarsi almeno in un romanzo come Ragazzi di vita che l'autore stesso dichiarava in tribunale di aver concepito come un «documentario»), quanto etico-affettiva».

Solo a guardarci più da vicino e ad andar oltre la palese analogia delle materie e di certi automatismi pasoliniani, si possono scoprire alcune importanti differenze fra la prima parte di Una Vita violenta e Ragazzi di vita.

Senza parlare della rigorosa divisione del romanzo in due parti uguali per numero sia di capitoli che di pagine (186 per ognuna nell'edizione che ho in mano!) va notato infatti che, in Una vita violenta, la narrazione pasoliniana risulta insierne più costruita, controllata ed efficace che nei Ragazzi di vita. In particolare, più nettamente e abilmente che nel romanzo precedente, ogni capitolo della prima parte di Una vita violenta è costruito come un episodio autonomo, a sé stante, dell'esistenza di Tommaso (ad eccezione però, del capitolo IV, dove, assente dalla battaglia di Pietralata, Tommaso compare solo nell'ultima parte del capitolo). Anzi la volontà architettonica di Pasolini è tale da fargli dividere regolarmente i capitoli in tre parti separate tipograficamente! Anche se (per ragioni su cui potremo eventualmente interrogarci più tardi) tale regolarità verrà contrariata simmetricamente nel primo e nell'ultimo capitolo della seconda parte (I=2 parti ; V=4 parti, ma il totale resta lo stesso!), non può non colpire il paragone con l’irregolarità manifesta del découpage dei capitoli nei Ragazzi di vita.

Pasolini coi baraccati della borgata romana
Ma più di queste caratteristiche puramente formali e esterne contano la logica e l'unità nuove da Pasolini date ai contenuti dei suoi capitoli : a tutti i cinque capitoli, anche al quarto, nonostante l’arrivo tardivo di Tommaso. Così, il primo («chi era Tommaso») presenta il protagonista sul filo di una vicenda precisa che conferisce alla narrazione una unità di luogo, tempo e azione di gran lunga superiore a quella avvertibile nel primo capitolo dei Ragazzi di vita: ed è, oltre la parte intermediaria occupata dalla partita di calcio che serve a meglio caratterizzarlo, il già citato tentativo di Tommaso di prostituirsi, di offrirsi al maestro di scuola, con le ciniche trattative intavolate con l’amico Lello, presunto partner del maestro (prima parte), a determinare direttamente la terza parte occupata dalle sconce, viziose avances fatte al maestro stesso, dall'insuccesso e dalla finale, appena accennata, abietta denuncia ai carabinieri.

E anche i capitoli successivi rivelano all'analisi, se non sempre un'unità rigorosamente incentrata sull'azione del protagonista come nel capitolo I (e nel cap. V), almeno una logica collettiva incentrata su un nucleo tematico più preciso, che non nei Ragazzi di vita.

Tutti i capitoli di questa prima metà del romanzo, secondo uno schema già predominante nei Ragazzi di vita, finiscono male: tutti narrano delle lotte che, dopo successi provvisori nelle parti iniziali, finiscono con una sconfitta. Per cui i primi cinque capitoli del romanzo si possono ricondurre addirittura a un unico schema e non sono, sotto la varietà degli episodi, che un'uniforme storia di vinti, di perpetue vittime. Ma più della maggiormente sorvegliata organicità della narrazione, fonte di un'accresciuta efficacia narrativa che però non intacca le sostanziali affinità tematiche fra i due romanzi, sono due tendenze nuove del discorso pasoliniano a testimoniare una innegabile evoluzione da Ragazzi di vita a Una Vita violenta: una sporadica ma insistita ironia nei riguardi del protagonista, unita a una più vistosa propensione all’evocazione dei suoi pensieri inespressi, all’analisi psicologica dunque e a una compartecipazione che in qualche modo contraria, ma comunque ridimensiona la funzione tradizionalmente «distanziatrice» dell’ironia.

L'ironia, palese nella descrizione dall’esterno di Tommaso, mira manifestamente a diseroicizzarlo, a sottolinearne le tare sia fisiche che morali, a farlo apparire come un poveraccio anche nei confronti dei poveri eroi con i quali vive e ai quali si sforza di eguagliarsi : si veda ad esempio, nel primo capitolo, la evidente ammirazione per, e soggezione a Lello, il quale più degli altri e quasi di continuo respinge Tommaso o ostentatamente mostra di non interessarsi di lui 12.

Più volte, Tommaso aspetta Lello, o gli corre dietro, o tenta di prevenire i suoi desideri, mentre l’altro, anche quando interessato, si applica a restar padrone di se stesso e dei propri sentimenti : a lasciar trasparire sempre o insofferenza, o indifferenza, o appena un'ombra d'interesse, col risultato di sempre deludere l’attesa di Tommaso, farlo arrabbiare di più, e accrescere in lui l’ossessione di essere «una potenza» (p.27). E così, nei suoi rapporti con i coetanei o con i ragazzi più vecchi di lui emerge uno scarto irrimediabile fra le pretese o le voglie di Tommaso e le sue scarse capacità non solo a imporsi ma perfino a tener dietro agli altri. E tale distacco tra voglia e possa risalta maggiormente nella scena, più crudamente ironica, della partita di calcio: quando Tommaso, che proprio il giorno prima (inizio del capitolo) si era accontentato di guardar giocare i coetanei, s'impone con la violenza fra una torma di ragazzini che di lui non vogliono, «facendo il carogna e sghignazzando forte, soddisfatto ( ... ) per le finezze che sta a fare», gridando «So 'na potenza, so», picchiando brutalmente un piccoletto che lo ingiuria (p.25) ; ma poi taglia la corda per paura che non venga fuori «il fratello grosso» del bambino picchiato, «facendo la camminata malandrina e cianciando pieno d'importanza altre parole minacciose ( ... ) e facendo finta di non andare per niente di fretta, smicciando però dalla parte della casetta zellosa del soggetto, per vedere se a buon bisogno non sortiva il fratello grosso» (p.26). 

Per tutto il capitolo, inoltre, il comportamento sostanzialmente disadattato di Tommaso, incapace di tener dietro ai compagni e pronto a vendicarsi e affermarsi vilmente fra i piccolini più deboli o con le denunce, viene rafforzato da apposite, brevi e sferzanti evocazioni fisiche che via via ne accentuano il ridicolo e tradiscono (traducono) lo sguardo ironico dell'autore/spettatore : «Tommaso ( ... ) con la faccina tonda e lenticchiosa, che pareva sempre sporca di grasso» (p.12) ; «con quelle due gambe storcinate che parevano quelle d'un cane bassotto» (p. 21) ; «mentre la bocca piatta gli si stirava in un risolino invelenito, che scopriva la fila del dentini marrone» (p. 23) ; «spalancando la boccuccia senza labbra coi quattro dentini marrone sbocconcellati» (p. 25) ; «la bocca larga, con la fila dei dentini marrone» (p. 27).

A queste disseminate evocazioni di un fisico ingrato si aggiungono pure quelle dei suoi vestiti cenciosi (pp. 33-34), per cui si presenta addirittura davanti al carabiniere «piccolo come un mucchietto di tutti stracci» (p. 37; anche se, presurnibilmente, gli altri non sono meglio in arnese di lui, resta che proprio sui suoi stracci si sofferma lo sguardo dell'autore). E pure si aggiungano, patetici indizi della sua impotenza, ripetuti accenni alla rabbia, al suo quasi piangere dalla rabbia dinanzi all'indifferenza e al poco conto in cui gli altri lo tengono : «quasi sbottò a piangere dalla rabbia» (p.14) «gonfio di pianto e di rabbia» (p. 16) ; «gli occhi quasi gli piangevano» (p. 23) «con la faccetta scottata dalla rabbia, quasi facendosi un pianto» (ibid.); e si veda più particolarmene poi la sua rabbia crescente per tutto l’episodio finale col maestro.

Insomma, dalle varie serie di notazioni negative che s'intersecano lungo l’intero, capitolo vien fuori un ritratto quasi caricaturale di Tommaso: anti- eroe ripetutamente e deliberatamente bersagliato da un'ironia in cui probabilmente entra anche una discreta dose di compassione e di compiacimento per questa figura di diverso fra i diversi, disadattato fra i disadattati, reietto fra i reietti della società.

Tale compiaciuta compassione dell'autore è peraltro corroborata dal secondo elemento nuovo (o comunque più evidente che nei Ragazzi di vita) reperibile nella narrazione pasoliniana, e cioè dalla accresciuta compartecipazione dell'autore ai pensieri del suo (anti)eroe. Certo, nonostante le dichiarate pretese veristiche, non mancavano nei Ragazzi di vita accenni a una descrizione interna dei personaggi ; ma non erano appunto che accenni, tentazioni passeggere cui l'autore si sforzava di resistere.

Mentre, già nel primo capitolo di Una vita violenta, si afferma una vistosa tendenza a ritrarre e seguire il personaggio dall'interno, nei suoi pensieri non rivelati, non espressi. Si veda per esempio il caratteristico infittirsi delle occorrenze del verbo pensare riferito a Tommaso nella scena col maestro (ben sei volte in tre pagine), spia di una propensione ormai palese e non repressa a mettersi nei panni (nei cenci !) del protagonista, a vivere dall'interno, soggettivamente, la sua vicenda: a compatire, nell'accezione etimologica di soffrire con lui, di condividere i suoi tormenti e pensieri segreti. In questo ormai non dissimulato modo di trattare il protagonista si rivela insomma, a dispetto della persistente volontà documentaria deducibile dall'avvertenza finale (p.383), un ritorno evidente ai vecchi canoni del romanzo ottocentesco, a un realismo che non è impersonalità verista ma si applica pure alla pittura psicologica intima dei personaggi. Dall'osservazione obbiettiva dei ragazzi delle borgate, Pasolini è passato chiaramente alla rievocazione anche soggettiva della loro vita ed è questo l'indizio di un forse più sofferto populismo (inteso come viscerale adesione all’esistenza popolare), appena stemperato da una più appariscente ironia la quale non è probabilmente nient'altro che l’ultimo baluardo dietro il quale tenta di riparare la compromessa obbiettività programmatica dell'autore: un riparo del tutto formale e trasparente, poiché lungi dal tradurre un qualsiasi distacco dell'autore nei confronti del protagonista, finisce al contrario col dar maggior rilievo al patetico interessamento di Pasolini per Tommaso. L'ironia, nel contesto di Una vita violenta, non è in fondo che l’espressione esteriore, pseudo-obbiettiva, della stessa pietà che si esprime nella accresciuta partecipazione ai pensieri intimi, alle reazioni mentali del protagonista. Ironia e compartecipazione (compassione) risultano dunque le due manifestazioni complementari – e per il lettore le due spie complementari – di un unico, coerente atteggiamento umanitario dell'autore : di una simpatia attiva che tendenzialmente lo trascina verso una quasi-immedesimazione con l’(anti) eroe diverso fra i diversi, e cioè diverso al quadrato, con un'operazione certo non priva di risonanze narcisistiche e più largamente autobiografiche.

Inserito poi nell'affresco globale della vita del borgatari abbozzato nei cinque capitoli della prima parte del romanzo, l’atteggiamento di Pasolini verso il suo protagonista non è che l'illustrazione più evidente di un atteggiamento più generale nei confronti della sua materia popolare. Oltre la già presente nei Ragazzi di vita ironia del destino che, qualunque cosa facciano i ragazzi e i borgatari in genere, sempre li condanna alla sconfitta, si veda anche l'ironia apparentemente impietosa con cui l'autore ritrae la furia delle donne nella battaglia di Pietralata, o l'atmosfera di sentimentalismo in cul si svolge la serenata a Irene (V, p.188) : con gli ascoltatori che ostentano «un'aria annoiata (,) ma intanto si sentivano venire la pelle di gallina, si squagliavano tutti a sentire quelle canzoni» ; con Carletto che «cantava, tutto in estasi, che un altro po’ lo vedevi che si staccava da terra, come un elicottero, e si metteva a volare», e poi «tutti lì intorno volavano con lui, come elicotteri, nel cielo, sopra i lotti». Anche in queste scene collettive, come nelle evocazioni di Tommaso, l’ironia caricaturale dell'immagine non è che la maschera pudica dietro la quale tenta di nascondersi quello che Asor Rosa chiama «il filone della pietà e della commiserazione, ossia del sentimentalismo»13: un filone che, lungi dal regredire dai Ragazzi di vita a Una vita violenta, risulta invece sensibilmente accresciuto, anzi reso più vistoso dai nuovi caratteri della narrazione pasoliniana, tanto che, tutto sommato, da Ragazzi di vita a tutta la prima parte di Una vita violenta non vi è frattura di sorta.

Una più sapiente strutturazione della materia narrativa intorno alla figura di Tommaso ha riportato la frammentaria, saggistica e alquanto disordinata coralità del precedente romanzo a una maggiore organicità ed unità. Anche il discorso narrativo si è fatto più vario, più scaltrito ed efficace, con l’oscillazione nuova fra la contemplazione ironica e lo scavo psicologico del personaggio centrale. Ma l’eredità dei Ragazzi di vita è passata sostanzialmente intatta nel romanzo successivo. Non solo la materia e la tematica, nonostante adattamenti e miglioramenti, sono quelle di prima, ma «l’intenerimento patetico-viscerale e l’astratto bercio di rivolta e di sfida» dilaganti nell'opera precedente14, lungi dal retrocedere, sembrano in Una vita violenta acquistare un nuovo vigore dagli effetti tutt'altro che oggettivanti dell'ironia pasoliniana. A tal segno che, stando alle dichiarazioni di Pasolini stesso che a più riprese aveva affermato di aver concepito e scritto in parte il secondo romanzo nella scia quasi immediata del primo, si sarebbe indotti a identificare esattamente la prima parte di Una vita violenta con quella metà del lavoro che egli diceva di aver compiuta fin dal 1957 15. Tale ipotesi, di una composizione della prima metà del romanzo nel prolungamento diretto del precedente, si trova peraltro corroborata dalla frattura avvertible fra la prima e la seconda parte: una frattura non solo materializzata nel lungo flash-back iniziale in cui si schiudono orizzonti sociali e storici pressoché ignoti alla prima parte, ma ben visibile nel sistematico innesto di prospettive ideologiche finora praticamente assenti, e perfino nel tono della narrazione pasoliniana. Come se – ipotesi inverificabile allo stato attuale della documentazione – tale frattura corrispondesse anche a un'interruzione più o meno lunga della composizione, e se fosse stato proprio il delinearsi tardivo di un programma ideologico anteriormente inesistente a suggerire a posteriori il rilancio di una trama già conclusa.



2. L’intrusione di prospettive ideologiche nel mondo dei Ragazzi di vita.

Con l’inizio della seconda parte del romanzo, si ha davvero l'impressione che cominci un secondo romanzo, un libro nuovo, come un dopo che presuppone come prima la parte precedente ma potrebbe costituire un tutto, un romanzo autonomo anche in assenza di tale prima parte.

La prima delle sole due suddivisioni che comporta il capitolo I si presenta infatti come un tipico esordio di romanzo tradizionale, in cui, a differenza di quanto avveniva all'inizio sia di Ragazzi di vita che della prima parte di Una vita violenta, dove il lettore veniva di colpo immerso in medias res, Pasolini indugia a lungo nel riepilogo dei vari elementi esplicativi e costitutivi della situazione sulla quale deve innestarsi la nuova vicenda di Tommaso alla sua uscita di prigione: una storia di casa Puzzilli, che costituisce un tentativo pasoliniano senza precedente (stando, almeno, alle opere pubblicate fino al '59) di inserire una vicenda individuale e familiare in un contesto socio-politico-economico di ampio respiro; un tentativo di saggio sociologico in cui, per la prima volta, si ha una chiara applicazione del programma di investigazione marxista della realtà dichiarato a posteriori «unica possibile ipotesi di lavoro. Per una ragione molto semplice: il socialismo è 1'unico metodo di conoscenza che consenta di porsi in un rapporto oggettivo e razionale col mondo». E si veda anche, nello stesso testo, un'altra, più precisa dichiarazione che perfettamente calza con l’inizio della seconda parte di Una vita violenta: «io credo soltanto nel romanzo storico e nazionale, nel senso di oggettivo, e tipico. Non vedo come possano esisterne d'altro genere dato che destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico per me non esistono; che marxista sarei?»16. Anche se Pasolini dà in queste righe una nuova prova del suo «marxismo mai ortodosso», cogliendo, come giustamente osserva Asor Rosa, «unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa»17, resta che le pagine iniziali della seconda parte di Una vita violenta costituiscono la prima evidente attuazione di un programma che, perciò, a buon diritto e validamente può esser utilizzato come chiave di lettura privilegiata degli ultimi cinque capitoli, e retrospettivamente della totalità del secondo romanzo pasoliniano.

Per tornare agli antecedenti dei Puzzilli, la nuova volontà pasoliniana di storicizzare i destini e le vicende ( ... ) individuali è evidente nell'evocazione puntuale della serie di avvenimenti che trascina la famiglia dalla casetta avita vicino a Isola Liri, una cittadina laziale in provincia di Frosinone, dove Torquato, il padre, faceva insieme il contadino e il bidello delle scuole, alla borgata romana di Pietralata; da una specie di modesto eden iniziale in cui in «una famiglia di lavoratori» come la sua «potevano andare a testa alta, e quand’era mezzogiorno il tavolino era sempre apparecchiato, due scodelle ci s'appoggiavano sempre (p.197)», all'inferno delle borgate in cui Tommaso, nato nel 1936, e il fratello maggiore hanno vissuto la fine dell'infanzia e l'adolescenza. La guerra del' 40 aveva riportato la famiglia in paese, ma poi, dopo 1'8 settembre 1943 (resa del governo Badoglio) e un breve ritorno del padre a casa, erano tornati su «insieme alla carovana dei profughi che scappavano verso Roma» mentre bombe, cannnonate e carri armati rasavano a Isola Liri casette e stalle. Prima ammucchiati con altri sfollati in una scuola (p.198), poi buttati fuori dalla scuola all'arrivo degli Americani, erano andati a finire nella baracca di Pietralata, e dopo essersi arrangiato come poteva per qualche tempo, Torquato era diventato scopino comunale. In seguito, dopo anni di «domande, al comune, all'anagrafe, ai preti, a tutti i santi, per avere una casa», era cominciata tutt’intorno la costruzione di palazzi dell'INA-Case e, appena finito il quartiere, le donne di Pietralata (con fra di loro la madre di Tommaso) erano andate «a occuparlo), come nel Far West ( ;) chi primo arrivava, quello che occupava era suo (p.199)». Naturalmente, dopo qualche tempo, la polizia era venuta a sloggiare le occupanti e tutto era tornato come prima. Sennonché, in capo a qualche altro mese, «ecco che qualcuno dei tanti santi che la Sora Maria (madre di Tommaso) pregava sempre, da dieci anni e più, si era fatto conoscere (p.200)», e i Puzzilli avevano avuto l'appartamento «e ci si trovavano belli larghi, pure, perché, nel frattempo, mentre Tommaso stava ancora a bottega, Tito e Toto (i due fratellini) avevano stirato le gambe, e, per casa, non giravano più». Seguono poi la storia strappa-lagrime della morte di Tito e Toto e, per finire, l’evocazione dell'arresto, della condanna e della lunga «villeggiatura» di Tommaso, con questo commento premonitorio dell'autore: «Eh, c’aveva ragione, la sora Maria, quando gli diceva sempre: chi gira la notte gira la morte. Lui non la sentiva per niente, ma la puncicata alla Garbante gli costò salata, ed ebbe un bel po’ di tempo per piangerci sopra» (p.203). Si capisce così perché il triste epilogo della serenata a Irene è evocato qui, dopo la lunga parentesi dedicata alla squallida gesta dei Puzzilli e ai fatti contemporanei del soggiorno in prigione di Tommaso piuttosto che al suo posto logico, come epilogo appunto dell’ultimo capitolo della prima parte: poiché la prigionia è esplicitamente destinata a fungere non tanto da epilogo, quanto da periodo di purgatorio e da luogo in cui si prepara una nuova partenza nella vita. Perciò Pasolini lo inserisce fra gli elementi della situazione iniziale della seconda parte, di una famiglia di lavoratori (fra molte altre) ridotta dalla storia e dal sottogoverno a vivere in condizioni vergognose, in una borgata di baracche miserabili, con la serie di conseguenze drammatiche, storicamente attestate, derivanti da tali disumane condizioni di vita: la malavita giovanile con prima o poi la prigione come immancabile risultato, le periodiche ma vane e sempre represse rivolte collettive contre l’ingiustizia sociale, una mortalità infantile eccezionalmente frequente per via di una situazione sanitaria deplorevole (morte di Tito), e della mancata sorveglianza e protezione dell'infanzia (morte di Toto); una situazione tragica in cui però appare un duplice barlume di speranza, un duplice germe di possibile riscatto: l’attribuzione di una casa nuova e della possibilità di una vita più decente, e la presa di coscienza provocata dalla prigionia, due elementi catalizzatori capaci, in concomitanza, di favorire una normalizzazione della vita del figlio traviato, una sua reintegrazione nella normalità sociale.




Ed è proprio verso tale riscatto sociale che si avvia Tommaso fin dalla seconda parte del capitolo I, in un clima di quasi felicità (rara nelle opere pasoliniane) fatto di una convergenza ottimale di condizioni climatiche primaverili e di pace serale, di un paesaggio urbano «pulito e nuovo» e dello stato d'animo nuovo del giovane detenuto appena liberato. Nella prima sequenza del testo, quella dell'arrivo di Tommaso nel suo nuovo quartiere e della scoperta progressiva della sua via e della sua casa, questi vari elementi s'intrecciano e si confortano vicendevolmente. Il paragrafo iniziale offre une veduta panoramica del quartiere quale lo può scoprire Tommaso arrivando con l'autobus, un quadro che acquista rilievo dal confronto con il ricordo del «mucchio, di cantieri» considerato con ironia dalla gente di due anni prima. Alla squallida immagine rimasta fissa nella memoria di Tommaso si oppone un quadro ridente, fortemente valorizzato dalla piena luce primaverile del «bel tramonto di maggio», insistentemente sottolineato a livello del discorso dalla aggettivazione, e in genere dal lessico e dal movimento del testo che dà all'arrivo di Tommaso l'aria di una scoperta della terra promessa: prima il sorgere dell'insieme «tutto bello pronto, con intorno una specie di muretto di cinta sui praticelli ( ... ) pieni di zozzeria», in cui perfino i prati sporchi rimasti uguali a quello che erano prima acquistano una connotazione positiva dal contatto col rutilante e baroccamente contorto abitato vicino tutto «strade nuove nuove ( ... ) in curva in mezzo alle case, rosa, rosse, gialle, tutte sbilenche esse pure, con mucchi di balconi e abbaini, e sfilate di parapetti» ; poi il panorama si fissa nella visione soggettiva di una nuova Gerusalemme luminosa, visione semi-mistica di un luogo sacro votato alla bontà, al bene, alla redenzione.

Questo paragrafo iniziale dà il tono all'insieme del brano. Man mano che Tommaso penetra nel quartiere e si avvicina alla sua casa e poi all'appartamento il paesaggio urbano si va precisando alternativamente attraverso nuove, più ravvicinate descrizioni dell'ambiente, evocazioni della vita che vi si svolge e visioni più soggettive chiaramente attribuite a Tommaso stesso. Ma anche le descrizioni esterne, da mettere in teoria sul conto dell'autore-narratore, in pratica recano l’impronta di una indubbia soggettività, data dall'uniforme affettuoso calore degli aggettivi e dei diminutivi. Si veda ad esempio, nel terzo paragrafo, il paesaggio di via dei Crispolti, con «le sei o sette palazzine, storte, di sguincio, con file di finestrini tondi, dipinte di rosa scuro», con i loro «cinque o sei scalini e tante balaustre a zig zag che le univano fra loro» : un paesaggio cui i diminutivi, le cifre modeste («sei o sette», «cinque o sei») e la finale immagine di unione conferiscono una dimensione umana, addirittura suggeriscono una solidarietà umana rafforzata dal contrasto fra il blocco compatto delle palazzine e il semi-deserto circostante dei «prati, tutti ondulati e bruciati sotto il sole» e dell'altra strada che fa da sfondo, «senza case, tagliata nel tufo»; un semi-deserto che materialmente ma con valore simbolico evidente separa la nuova Gerusalemme, teatro di una nuova vita, dalla borgata visibile all'orizzonte, ed è punteggiato di altri due suggestivi nuclei umani : il nucleo di una vita anteriore, contadina, rappresentato dal «vecchio cascinale con delle quercie», e quello simbolicamente carico di speranza della «chiesa di legno, piccoletta, ( ... ) isolata in uno spiazzetto» dalla parte della borgata, specie di materializzazione familiare della religione, eretta qui come a tutelare la vita nuova del nuovo quartiere e a ripararlo dall'inferno delle borgate. E si veda poi dopo il nuovo, breve, addirittura mieloso, inciso, sul tempo (p.207: «L’aria era calda calda, zuccherina: dappertutto c’era sole, soltanto sole, giallo e tranquillo»), l’evocazione sentimentalistica della vita pacata del quartiere all'avvicinarsi del tramonto, quasi una vita da villaggio di campagna, col canto delle donne, i giochi del ragazzini più piccoli (i pupi) «con le pallette», la partitella dei più grossi «con un pallone tutto rattoppato», e perfino la fontanella con uno che canta «corne un fringuello» nell'aria dolce dolce «un ritornello sentimentale, Oi Lazzarella». Manifestamente, la frequenza eccezionale degli aggettivi con valore positivo e dei diminutivi traduce una contemplazione commossa da parte dell'autore e nel contempo sorregge e accompagna come una sinfonia luminosa di colori, di forme e di voci felici, il progressivo addensarsi dell'emozione dell’eroe. Tommaso, prima colpito come da vertigine (p.206 : «il cuore gli batteva forte, tanto che quasi gli girava un po’ la testa») e ingrugnato per l’indecisione e la vergogna «per il fatto della galera» e la paura che la gente «venisse a sapere» da dove usciva, è gradualmente vinto dall’atmosfera di felicità che lo circonda e si ritrova, al momento di entrare, «con un nodo alla gola per la commozione», (p.207) quasi in pianto, ingrugnato non più per indecisione o vergogna, ma per un semplice riflesso di pudore : «per non far vedere quello che prova», paragonando l’immagine sempre viva nella sua memoria della «catapecchia di legno marcio, coperta di bandoni e di tela incerata, tra l’immondezza, la fanga, le cagate» in cui era vissuto fino al suo imprigionamento, con la sua nuova casa «in una palazzina, e di lusso, pure, con le pareti belle intonacate, e le scale con delle ringhiere rifinite al bacio». La commozione di Tommaso culmina quando scopre sulla porta dell'appartamento il proprio cognome scritto «in lettere grandi e lavorate» e bestemmia di stupore «ridendo rosso rosso, con gli occhi che sempre gli luccicano» (p.208) ; diventa poi addirittura felicità dinanzi allo spettacolo grandioso di mezza Roma che gli si offre dal finestrino del pianerottolo.

Da allora in poi, la felicità di avere una casa lo accompagna e periodicamente ritorna come un leitmotiv per tutto il tempo che erra nei dintorni in attesa del ritorno dal lavoro dei genitori. Sempre con lo stesso pensiero ossessivo, si reca a Pietralata dove incontra e in cuor suo snobba i compagni di prima, che tutti vivono «ancora nelle capane, morti di fame uno peggio, dell'altro» (p.210). Poi ritorna verso l’INA-Case, contempla con interesse nuovo i suoi nuovi vicini, gli «studentini figli di papà» (p.213) che stanno a giocare nel cortiletto della chiesa e poi, quasi suo malgrado, come portato da una forza incontrollabile, penetra nella chiesa e finalmente si ritrova in canonica, a recitare dinanzi al prete la parte del «bravo ragazzo» deciso a sposarsi con tutte le carte in regola.

Ciò che avviene così nel primo capitolo della seconda parte di Una Vita violenta è addirittura una conversione di Tommaso, una adesione felice alla norma, in un episodio che per la prima volta dall'inizio del romanzo si conclude con un lieto fine, sull'immagine di un Tommaso che vive la notte plu bella della sua vita, dormendo senza dormire, con sempre presente in mente il pensiero «di essere dentro la sua casa, una casa bella, grande e a regola d'arte, come quella del signori» (p.223): insieme causa, coronamento e emblema del suo nuovo stato d'animo.

Ma dopo la conversione protatica alla norma sociale del capitolo I, i successivi quattro capitoli costituiscono gli ultimi quattro atti non del progettato inserimento sociale, ma di una tragedia, che progredisce di pari passo con una patita ascesa spirituale e termina con una morte dal significato quanto mai ambiguo : consacrazione della fatale, inevitabile sconfitta del borgataro sopraffatto dalle tare fisiche insanabili contratte durante l’infanzia; ma per un altro verso l’esito estremo dell'abnegazione trionfante, estremo quanto discreto sacrificio redentore di un nuovo santo laico, degno di dare dopo la morte il suo nome «alla sezione (comunista) di Pietralata, per l’azione brava che ha fatto, e che adesso sta pagando così cara» (p. 381).

Dopo la conversione dell'atto I, la sofferta elevazione insieme spirituale e ideologica di Tommaso comincia nel capitolo / atto II, « primavera al l’INA-case», in un modo quanto mai incerto, conformistico e utilitaristico, appena drammatizzato di tanto in tanto dai primi fastidiosi attacchi del male che diventerà in seguito il filo conduttore e il cemento della tragedia dell’eroe. Non è che un primo, timido passo, che dal fascismo iniziale trasformatosi già nella prima parte in una specie di istintivo qualunquismo anarcoide18, porta Tommaso in un primo tempo al conformismo più vieto, tutto nutrito delle più banali aspirazioni borghesi debitamente sottolineate nel lungo, sentenzioso dialogo con la fidanzata ritrovata : «adesso t'ho rivista; e ‘sti giorni a me m'ha attraversato sempre er pallino pe’ a testa de sistemamme... Ecco cioè, vorrebbe cambià vita» (p. 232). Segue poi un'allusione alla sua scapestrataggine anteriore, debitamente spiegata dalle condizioni di vita nelle borgate, e una serie di battute sia di Tommaso che di Irene, che tutte illustrano le stesse aspirazioni conformistiche: TOMMASO «Ormai ho capito che vor dì a esse rispettato da tutti, a esse benvoluto» ; IRENE: «Io ce lo so, a Tomà, ( ... ) che tu c’hai li principi bboni ...» ; TOMMASO: «Famo le cose come vanno fatte», ecc. (p.233). E per finire, dopo alcune considerazioni sull'onestà e la dignità della vita dei signori, questa risoluzione di Tommaso: «Parlo cor prete, e me segno pure io ar partito democratico» (p.237), idea subito approvata da Irene, pure figlia di comunisti: «Nun è ‘n’idea sbajata, a Tomà ! E poi essendo de quer partito un domani ce po’ esse sempre un aiuto... qualche lavoro... E poi accostasse a la Chiesa uno c'ha sempre n'altro conforto»! Il cambiamento affettivo di Tommaso non è poi così completo come lo pretende a parole se la domenica successiva, nonostante la sua dichiarata volontà di essere ormai benvoluto e rispettato da tutti, si comporta con Irene in modo quanto mai violento, costringendola a sottostare ai propri appetiti sessuali e poi facendole una scenata sotto l’impulso di una subitanea gelosia. Ma poi ovviamente le cose non sono così semplici, e il comportamento di Tommaso non va interpretato in modo semplicistico come una pura, animalesca aggressione sessuale maschile: in primo luogo perché Irene ovviamente si schermisce ma poi non resiste tanto accanitamente e pare, anzi, più preoccupata delle condizioni in cui Tommaso vuol compiere l’atto sessuale, del freddo e del fango, che decisa a rifiutare l’atto stesso; in secondo luogo perché, oltre l’eccitazione – spiegabile fra l'altro dai due anni di prigionia e di astinenza –, ad accrescere la violenza di Tommaso sta la semi-impotenza insistentemente sottolineata sotto forma di una serie di monologhi interiori del ragazzo. Se il suo comportamento non perde nulla della obbiettiva brutalità, la cura con la quale l'autore, calandosi di nuovo nell’intimo del suo personaggio, si applica ad analizzare ed oggettivarne i moventi fisiologici e psicologici non consente di parlare di animalità. Anzi, lo sgomento di Tommaso una volta compiuto l’atto (p.243: «Mannaggia» pensò Tommaso, «ma com’è? Che ho fatto?») sta ad indicare un residuo di purezza, un rimorso quanto mai umano in un essere combattuto fra passione sensuale e ragione. E la successiva gelosia, oltre una volontà maschile di possesso esclusivo, è anzitutto una rudimentale e quasi istintiva, ma sincera e patetica manifestazione di amore19. A studiarlo da vicino, insomma, questo capitolo II illustra bene l’impegno nuovo con cui l'autore si applica a riscattare la esteriore schematicità dell’evoluzione di Tommaso a spiegarla e giustificarla con un'accurata analisi dei moventi complessi (sociologici, morali, fisiologici, psicologici) che la determinano in modo tutt'altro che lineare e semplicistico: come la risultante di una lotta continua, difficilmente combattuta, fra istinti e ragione, fra le vecchie abitudini ereditate dall’ambiente squallido in cui era cresciuto Tommaso e un nuovo ideale di rispettabilità borghese che stenta a far tabula rasa del passato e a tradursi in un comportamento coerente.
Fellini e Pasolini
E lo studio dettagliato dei capitoli successivi porterebbe ad identiche conclusioni sul modo insierne profondamente realistico e intimamente e coerentemente vissuto dall'interno con cui Pasolini porta avanti la sempre contrastata evoluzione del suo eroe. La tubercolosi, malattia tutt'altro che infrequente e inverosimile nelle borgate romane, lo conduce all'ospedale Forlanini (teatro nel ’52 e nel ’55 di incidenti violenti, di cui gli ultimi, negli articoli della stampa, appaiono pressocché uguali a quelli evocati da Pasolini) dove, preso quasi suo malgrado, è vero, nel processo di resistenza alla repressione poliziesca, abbozza la presa di coscienza che lo indurrà poi ad iscriversi al PCI (capitolo III). L'iscrizione al PCI avviene alla fine del capitolo IV, al termine di una rassegna delle ultime tragiche vicende dei suoi ex-amici (lo Zucabbo che si prostituisce, Lello che continua a vivere d’elemosina, il Cagone che si è impiccato dopo la morte tragica della madre) e di una evocazione tutt'altro che edificante della atmosfera che regna nella sezione comunista di Pietralata : disumano burocratismo (pp.299-300), truffe abiette dei responsabili locali che dividono fra di loro i profitti dell'osteria gestita dalla sezione (pp.311-313), ipocrisia delle belle parole sotto le quali celano in pubblico la loro poco raccomandabile mentalità (pp.314 sgg). Il quinto e ultimo capitolo, infine, giustappone il peggiore e il migliore Tommaso: il peggiore, prima, che in un cinema estorce vigliaccamente a un omosessuale tutto il suo denaro e l’indomani si pavoneggia di bar in bar in mezzo agli amici di una volta e al cinema non esita a dar noia a una ragazzina «di primo pelo» (p.356) ; e poi il Tommaso migliore, «San Tommaso, er santo dell'alluvionati», come lo chiama scherzosamente il Budda, che appunto partecipa coraggiosamente al salvataggio degli alluvionati della Piccola Shangai e, mal ridotto di salute com'è, si ammala di nuovo e muore.

Ora, se è vero, che, dall’uscita di prigione alla morte tragica, la vicenda di Tommaso nella seconda parte del romanzo segue una linea globalmente ascendente, culminante in un'innegabile positività, non vanno dimenticati i molti elementi persistentemente negativi, insistentemente sottolineati dall'autore, e che insidiosamente riducono la contrastata redenzione del ragazzo di vita a una anodina quanto inutile tragedia individuale in un mondo di disperazione senza uscita. Non per nulla l’ultimo capitolo è intitolato «l’eterna fame» e non per nulla è l'impossibilità di vivere decentemente (si vedano i calcoli precisi del primo paragrafo) a precipitare di nuovo Tommaso nella malavita, rinnegando così anch’esso nella pratica quotidiana il suo pur nuovo ideale, proprio come i responsabili della sezione comunista da lui poc’anzi considerati con disgusto. Tant’è vero che, dopo l’occasione del tutto casuale di riscatto offertagli dall'alluvione e dopo la sua azione coraggiosa, tutto ritorna come prima, anzi peggio di prima. «Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzuto, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza» (p.377). Ma si tratta di une speranza tenue tenue, se non addirittura vana, in una società irrimediabilmente bloccata in cui non solo il ministro che va a visitare la borgata dopo il disastro non fa altro che «le solite promesse», ma vi è poco da aspettare dagli stessi fautori del pannacio rosso che quotidianamente tradiscono la fiducia riposta nel loro emblema.

Tornando per concludere ai problemi evocati all'inizio di questo mio intervento, certo non si può non riconoscere in Una Vita violenta un romanzo di indubbia ispirazione marxista, sia per il contenuto che per la tecnica narrativa, la quale molto più precisamente che nel romanzo precedente si applica a inserire la vicenda dei ragazzi nel più ampio contesto storico che la spiega. Una Vita violenta è, non la parabola tipica del ragazzo di vita (in quanto nessuno degli amici di Tommaso conosce la stessa evoluzione di lui), ma la parabola di un ragazzo di vita, insieme ideale (anzi alquanto utopica per l’eccezionale concorso di circostanze che quasi porta Tommaso dall’estrema destra alla, per l’epoca, estrema sinistra, dal teppismo fascista, al qualunquismo, alla DC e al PCI) e resa verosimile dall'accurata analisi sia della realtà ambientale che dei meccanismi psicologici interni del ragazzo e dalla sostanziale veridicità storica dei fatti e degli ambienti descritti. Tuttavia, nonostante il consenso espresso da molti critici marxisti all'uscita del romanzo, Una Vita violenta difficilmente potrebbe dirsi conforme all'ortodossia marxista-comunista : non solo perché vi si trovi unicamente, come osserva Asor Rosa, «il tema gramsciano del nazional-popolare», un tema che non di rado versa nel patetismo populistico per la evidente simpatia e partecipazione emotiva di Pasolini alle vicende dei suoi eroi, ma anche per la pittura oltremodo severa dei comunisti fatta nel romanzo, per la sostanziale vanità finale della loro azione di fronte a una situazione che sono impotenti a cambiare, per la alquanto irrisoria beatificazione laica di Tommaso che proprio non cambia nulla alla realtà circostante ed è destinata ad esaurirsi tutta nell'attribuzione del nome dell’eroe morto alla sezione di Pietralata. La fine della vicenda di Tommaso è certo l’esatto risvolto eroico e altruistico di quella grigia e egoistica della vicenda del Riccetto di Ragazzi di vita, ma la sua adesione al marxismo, lungi dall'introdurre nel finale del romanzo la salda e fiduciosa speranza in un futuro migliore ostentata dai comunisti, non fa in fondo che sottolineare la impotenza presente dell'ideologia simboleggiata dal pannaccio rosso a cambiare il mondo. Per cui, Una Vita violenta non solo non approda minimamente a quella «proposta chiara ed inequivocabile di un asse ideologico ( ... ) orientato verso il socialismo» che a Salinari parve di scoprirvi 20, ma perfino denuncia nel comunismo un’ideologia né migliore né più efficace dello Stato democristiano di fronte all'eterna fame del sottoproletariato. Certo tale denuncia risulta solo implicitamente dall’ultimo capitolo e l'approdo di Tommaso al PCI è debitamente presentato come il punto d'arrivo di un processo ascendente di maturazione, lungo un «asse ideologico» di cui indubbiamente l’adesione al partito rappresenta la vetta più alta; ed è scomparsa gradualmente, dalla seconda parte del romanzo, quasi ogni traccia di un’ironia dell'autore verso il suo eroe che potesse far pensare a una qualche minima disapprovazione del suo comportamento e delle sue scelte. Ma l'ironia dall’eroe si è trasferita nelle cose e nei fatti ; e sono ora proprio i fatti, l’ineluttabile fiasco dell’«eroe positivo», martire inutile a se stesso e agli altri in una società bloccata, senza più la speranza di una qualche riscossa rivoluzionaria, a obbiettivamente e ironicamente insidiare e per finire vanificare l’ostentata, formale adesione programmatica ai canoni in nome dei quali la critica marxista ufficiale aveva stroncato Ragazzi di vita.

Anche se i detrattori del romanzo precedente sono rimasti in qualche modo ingannati dalla superficiale programmaticità dell'opera, attribuire a Pasolini una qualche volontà mistificatoria nei loro confronti sarebbe tuttavia esagerato. Caso mai sarebbe più giusto parlare di auto-mistificazione, in quanto la vicenda finalmente andata in nero del suo eroe traduce probabilmente una sua sincera aspirazione al riscatto del mondo borgataro. Ad essere mistificato nel romanzo è anzitutto un volontaristico e quasi scolastico programma ideologico inatto a riscattare la visione ormai irreversibile di un mondo disperatamente senza uscita, in cui non resta altra possibilità di redenzione che nel martirio e nella morte. Non a caso la fine della vicenda di Tommaso annuncia già quella del «povero cristo» di Accattone e non a caso in Accattone, nuova e più tragica versione della vicenda del sottoproletario, verrà cancellata ogni traccia di aspirazione ideologica. Accattone sarà in qualche modo la conclusione di Una Vita violenta, la conclusione logica della «delusione della storia»21 e del fallimento delle ideologie concretamente illustrati nella vicenda di Tommaso e di cui contemporaneamente le poesie di La Religione del mio tempo e in seguito Poesia in forma di rosa costituiscono il tormentato diario, personalmente vissuto da Pasolini stesso. Insomma, per parafrasare l'espressione di Marx ripresa nel titolo di un romanzo pasoliniano del periodo friulano, quello che narra Una Vita violenta non è tanto, come si è creduto all’uscita del romanzo, la storia dell'approdo positivo al «sogno di una cosa» quanto quella del tragico fallimento del «sogno di una cosa» impossibile.

Paul Larivaille

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1 G.C. FERRETTI, Letteratura e ideologia, Roma, Editori Riuniti, 1964, (2a ed., 1973),pp.219-250 (su Ragazzi di vita) e 301-315 (su Una vita violenta). Cfr., in particolare, p.303: «Sulle novità di Una Vita violenta rispetto a Ragazzi di vita insistette giustamente a suo tempo la maggior parte dei critici di ispirazione marxista, con un gruppo di articoli molto analoghi nei loro motivi di fondo, ma con una accentuazione troppo positiva che finiva per lasciare in ombra le profonde crepe dell'opera e il loro vero significato». Recentemente ancora, Guido SANTATO (Pier Paolo Pasolini: L'opera, Vicenza, Neri Pozza, 1980, p.212) ha ribadito che «l’elemento progressivo e la prospettiva politica che animano il romanzo furono sottolineati in misura anche eccessiva dai rappresentanti della critica marxista, in contrapposizione a quelli che erano stati precedentemente denunciati come i limiti e le carenze di Ragazzi di vita».
Per i giudizi dei critici marxisti su Ragazzi di vita, oltre la rassegna di Ferretti, si veda anche l'articolo di Fernando BANDINI (Da Casarsa a Roma, in AA. VV., Pasolini: Cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1977, pp.7-72), pp.60 segg. I principali articoli di ispirazione marxista riguardanti Ragazzi di vita sono quelli di R. DAL SASSO («Rinascita», Luglio-agosto 1955), A. SERONI («Vie nuove», 24.7.1955), Giovanni BERLINGUER   («L'Unità» di  Genova,  29.7.1955),   G. TROMBATORE   («L'Unità», 11.8.1955), C. SALINARI Il contemporaneo», 9.9.1955 e 30.6.1956, cui va aggiunto un saggio del 1958 pubblicato poi in La questione del realismo, Firenze, Parenti, 1960, pp. 57 segg.).
Su Una vita violenta, gli articoli evocati da Ferretti sono  quelli  di : C. SALINARI (« Vie nuove », 27.6.1959), R. DAL SASSO (« Il contemporaneo », giugno-luglio 1959), M. RAGO (« L'Unità » di Milano, 1.7.1959), P.   DALLAMANO   («Paese-sera»,  7.7.1959), G. MANACORDA («Rinascita», luglio-agosto 1959), G.C. FERRETTI («Il Calendario del Popolo», ottobre 1959, e «Il contemporaneo », giugno 1961, pp. 21-2 e 28-9).
Da notare che al coro favorevole a Una Vita violenta si oppone fin dal gennaio 1960, su «Rinascita», il senatore M. Montagnana, che deplora che i critici comunisti valutino positivamente un romanzo in cui non solo la povera gente ma anche i comunisti risultano ridotti a un'accozzaglia di delinquenti (cfr. AA. VV., Pasolini.... cit., pp.106-107).
2  Cit. Ibid., p. 61.
3  C. SALINARI, La Questione del realismo, cit.
4 Ibid.
G.C. FERRETTI, Letteratura e ideologia, cit. ; Alberto ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Roma, Savelli, 1965, pp.413-435.
6 FERRETTI, Letteratura e ideologia, cit., pp.301-2.
Cfr. ibid., p.302, le citazioni estratte da "Nuovi Argomenti'’, 38-39, maggio-aggosto 1959, e da “Vie nuove”, 24-5-1962.
8  Si vedano i volumi citati di Ferretti e Asor Rosa, e in particolare le analisi del poema   eponimo di Le Ceneri di Gramsci (FERRETTI, Letteratura..., pp.268-275 ; ASOR ROSA, Scrittori.... pp.396-406). Mi sia consentito, su questo punto, di rinviare pure a quanto dico  della raccolta Le Ceneri di Gramsci in un mio recente saggio su Autobiografismo e storia nella poesia di Pasolini (Convegno pasoliniano tenutosi a Roma i 16-17 maggio 1983, pubblicato in AA. VV., Pasolini, n° speciale della rivista « Galleria », Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1985, fasc. 1-4, pp. 106-145).
Nelle pagine « Al lettore nuovo » premesse all'antologia del 1970 : P.P. PASOLINI, Poesie, Milano, Garzanti, 1970, p.10.
10 FERRETTI, Letteratura, pp.313-15.
11  Scrittori.... pp.422 segg.
12 pp.12-13 : appaiono emblernatici sia il modo in cul Lello corre, distaccandolo più volte, che la maniera in cui l'autore narra la scena : « L.. se ne andava avanti per il ponte come fosse il capo, senza nemmeno voltarsi a guardare lo schiavo che gli trottava appresso Tommaso gli correva appresso, tutto allaccato, col fiatone » ecc. Tutte le citazioni e indicazioni di pagine rinviano alla prima edizione, Milano, Garzanti, 1959
13 Scrittori..., p.422.
14  La formula è di FERRETTI, Letteratura.... p.248
15  Sulle evocate dichiarazioni di Pasolini, cfr. ibid., p.301 e n. 1.
16  “Nuovi Argomenti”, 38-39, maggio-agosto 1959, pp.46, 48.
17  ASOR ROSA, Scrittori.... p.426
19 Cfr. la confessione finale, impacciata, di Tommaso : « ..Io quanno m'affeziono, m’affeziono davero, mica m'affeziono pe’ un giorno o due !... Io t'ho fatto tutt’sta cazziata, ‘sta romanzina, perché me sento da volette bbene ... ».
20  « Vie Nuove », 27.6.1959.
21 La formula compare qualche anno dopo in un verso del poema intitolato Poesia in forma di rosa, nell'omonima raccolta.