Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice delle fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca
Horcynus orca: un romanzo inconfondibile e inimitabile di Stefano D’Arrigo
Agli inizi degli anni Sessanta si aprì un interessante dibattito letterario sulla crisi dei moduli narrativi che si
identificavano in quelli del periodo neorealistico e, in seguito, in quelli “memoriali” di Bassani, Tomasi ecc.
e sulla esigenza di sperimentarne altri. La discussione si animò sempre più nelle sue motivazioni
ideologiche e si cominciò a parlare di avanguardia e sperimentalismo, ma, nel periodo compreso tra il 1953-
63 circa, altre voci si potrebbero menzionare a testimonianza del panorama letterario caratterizzato
dall’insoddisfazione dei moduli tradizionali e dalla ricerca di nuovi mezzi di rappresentazione.
Sperimentazione e ricerche, esigenze compositive, nuovi gusti, orientamenti, ereditati dal dibattito precedente, sono presenti in vario modo nella prima metà degli anni Settanta; ci troviamo di fronte a quella produzione avanguardistica e sperimentale contrassegnata dal suo impegno di trasgressività, dal rifiuto dei valori estetici tradizionali, dall’interesse per la ricerca e la verifica dei mezzi di linguaggio. Ed è proprio in tale contesto che trova la sua naturale collocazione l’Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo, un romanzo che, a quasi trent’anni dalla pubblicazione, spentisi i commenti e le polemiche a caldo, risulta inconfondibile e durevole, un esempio unico ma non imitabile.
Stefano D’Arrigo (1919-1992) nato ad Alì Marina (Messina), nei primi anni Cinquanta manifesta i primi intenti di un’opera di ampio respiro: una sorta di “epos” mediterraneo costruito su una radicale rielaborazione della lingua italiana e sulla reinvenzione di un nuovo lessico letterario supportato da forme dialettali dell’area costiera siciliana tra lo stretto di Messina e l’estrema diramazione della Calabria.
Nel 1959 una giuria composta da Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Carlo Bo, Cesare Zavattini e LucianoAnceschi premia alcune pagine inedite di D’Arrigo e annuncia alla società letteraria che un autore, quasi sconosciuto, sta scrivendo un’opera innovativa con dedizione assoluta. Di ciò si ha conferma nel 1960, quando sulla prestigiosa rivista «Il Menabò» diretta da Vittorini, escono con il titolo I giorni della fera cento pagine di un “work in progress”, che è Horcynus Orca, pubblicato poi - come si è detto - nel 1975.
Nell’opera, di milletrecento pagine, divisa in tre parti e in quarantanove episodi, D’Arrigo narra il ritorno dalla guerra di ‘Ndrja Cambrìa, nocchiero della fu Regia Marina italiana. Gli episodi del romanzo, ricchi di particolari, si snodano dopo il tragico armistizio dell’8 settembre, lungo l’arco temporale di sette giorni a partire da sabato 4 ottobre 1943.
Uscito illeso dalla guerra, Ndrja, raggiunte le spiagge della Calabria, disseminate di resti e rovine, va alla ricerca di una imbarcazione per attraversare lo Stretto e tornare finalmente nel suo paese dal nome mitico, Cariddi, che sorge sulla costa siciliana orientale, quasi davanti alle rive calabresi di Scilla.
Egli, prendendo le distanze da una realtà vile e degradata, vuole riprendere il vecchio mestiere di pescatore e iniziare la propria vita dal punto in cui è stato costretto ad interromperla per andare in guerra. Pur avendo le autorità alleate vietato a chiunque di navigare nello Stretto, riesce tuttavia a farsi trasportare di notte dalla barca di una contrabbandiera della comunità matriarcale delle “femminote”, la misteriosa Ciccina Circé, il cui nome come quelli di Scidda e Cariddi, richiama simbolicamente il mito di Ulisse. Ben presto, però, ‘Ndrja si rende conto con amarezza del cambiamento del suo dolce paese Cariddi, sconvolto dalle turpi lotte per la sopravvivenza e minacciato da una tragedia imminente per l’apparizione dell’ “orcaferone” che “nuota” nello Stretto, già infestato dalle fere, delfini famelici che distruggono le reti dei pescatori, e fa “carneficina”.
Attraversando le correnti fra Jonio e Tirreno, i “duemari”, l’animale Horcynus Orca assurge a referente simbolico della guerra che ha reso mostruosi luoghi e uomini. Così l’irruzione dell’orca, mostro canceroso che dà morte, si fa presto allarmante premonitrice del destino mortale di ‘Ndrja, che è anche il destino di sconfitta degli uomini. E, quando le fere la scodano riducendola a pezzi, l’orca che dà la morte si manifesta come la vita stessa che reca con sé la morte, perfino pronta a risorgere ma ancora e sempre perdente. “Era l’orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola”. E ancora più avanti: “Lei è l’orca orcinusa, l’orca che ammazza, ammazza e basta, e lei ammazza”. Dalla narrazione spicca un senso di vita e di morte che le astrazioni non riescono a suscitare ma che solo le immagini esprimono con mirabile efficacia. Altrettanto imponente si presenta la scena in cui Masino si vuole accertare della morte dell’orcaferone: “Andò di coda all’immensa orcagna, che la sua piccolezza faceva apparire più immensa, occhiò sul montone, risalì l’orcagna per la fiancata sinistra tutta 2 squarci, profondi e brandelli, arrivò al quarto davanti allargando un poco e per spronarlo, se era morto, se era vivo, spruzzò una manata d’acqua contro la testa dell’animalone; poi come niente fosse, si avvicinò ancora di più, gli andò vicino, quasi con la faccia sull’occhio, come per vedergli la pupilla sotto la palpebrona”.
Nel romanzo l’orcaferone si carica di un alone di terrore, diviene pestifera testimonianza di un ordine superiore delle cose che, scardinato l’equilibrio, diverrà ben presto oggetto dell’amara dissacrazione, la stessa che ha tramutato i marinai di Cariddi in ombre del loro passato. L’equilibrio vita-morte si è spezzato per la prevaricazione di quest’ultima e dunque fra l’angoscia esistente e il disordine della natura si inserisce un divario che solo la morte può saldare. Ecco perché la barca, che alla fine del libro trasporta il cadavere di ‘Ndrja verso la madrepatria, sigilla il cerchio semantico del rapporto fra arcano e arcaico: l’arca che diventa la bara-barca, e l’Orca (-Orco, animale micidiale), portatrice dell’angoscia arcana dell’uomo di fronte alle barriere invalicabili del mondo. A contatto con la realtà del dopoguerra, il giovane ‘Ndrja, educatosi ad una vita deputata ad essere sconfitta dalla morte, comprende che non si muore soltanto in guerra, ma si può spesso morire anche in tempo di pace, travolti dai sistemi cosiddetti civili: si può morire di corruzione, di sofferenze, di miseria morale, poiché in questo mondo occidentale in crisi non c’è più salvezza, non c’è più la possibilità di imparare il mestiere di vivere. Non a caso la morte tante volte evocata prima, durante e dopo la guerra sarà inflitta al giovane da una sentinella dei liberatori, mentre sta navigando verso la linea dei due mari: “’Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante fiancata della portaerei, e fu come porgesse volontariamente la fronte alla pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre ”.
Il “nostos”di ‘Ndrja verso la sua terra si dispiega su uno scenario di una patria divisa in due in seguito all’armistizio dell’8 settembre ’43, e dilaniata da un caos orrendo: le città e i paesi ridotti a larve, a un’immane terra devastata, una terra di nessuno. Una luce, offuscata dai lutti, rischiara i superstiti non del tutto consci di essere vivi e per questo più straziati nell’anima e nel corpo. Ma tuttavia bisognava risorgere, bisognava ricostruire l’esistenza nel crudele espandersi del “bellum omnium contra omnes”: questa era la coraggiosa sfida che partiva dal paese della morte.
Quello di ’Ndrja è un “nostos” incerto e vago, sovrastato dalle ombre della notte e dal passato. Percorrendo tutta la costa tirrenica, da Napoli fino al paese delle “femmine”,il protagonista assiste a scene orribili, incontra figure nelle quali appare condensato tutto il dolore: le fiere femminote; l’infelice Cata, tratta inconsapevolmente dal suo Ade, accostata per la sua dolcezza all’Euridice di Rilke; la madre e la sorella di Sasà Liconti; Ciccina Circé, la madremaga che lo traghetterà verso il suo paese su quel mare che nessuno poteva solcare. E sono queste donne, le Madri-Spose, superstiti figure ctonie, che vagano e vivono fra le rovine come se attendessero qualcosa in grado di riscattarle e piantano gli occhi in faccia alla morte con superbia vitale e sacrilega, traendo nel contempo la forza di sopravvivenza anche nel dominio della morte. Tutti soffrono, ma ognuno per se stesso, ognuno è come prigioniero del proprio dolore, ed è come se l’eroe “patiens”, attraversando questa terra desolata, abbracciasse i dolori di tutti facendoli propri, unendo le loro memorie offese e rabbiose alle proprie. Il tramonto del sole e l’incipiente notte senza luna, all’inizio del romanzo, fanno risaltare gradatamente la sconfortante devastazione e gli scempi, che appaiono come “ la vendetta della natura” per la violenza che le ha arrecato lo spirito, per averla plasmata a sua immagine e somiglianza.
Molti studiosi hanno indagato la scrittura di D’Arrigo ponendo l’accento sulle sue linee stilistiche fondamentali e, anche se hanno individuato nel testo prolissità e manierismi e una tecnica costante di allitterazioni, omoteleuti, duplicazioni, ripetizioni di parole chiave, tuttavia hanno riconosciuto il respiro epico eccezionale e la straordinarietà dell’opera.
Da una lettura immediata si possono cogliere echi di opere di autori illustri, all’unanimità vi si riconoscono Faulkner, Joyce, Dante, Melville, Omero, perfino Frugoni, Francesco Colonna, Céline. Sono visibili significativi rimandi ipertestuali al canto XXVI dell’“Inferno” di Dante: “Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / e la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin ch’il mar fu sopra noi richiuso”. L’ultimo verso pronunciato da Ulisse “Infin che il mar fu sopra noi richiuso” trova risonanza nelle ultime parole del romanzo: “là dove il mare è mare”. Dall’esame attento del lessico, alcuni indizi lasciano trasparire la presenza di D’Annunzio: “Nella fumèa del vespro, intorno a Roma/ erano ovunque […]; Tra la fumèa rossastra/ alberi / (da Elettra ), nelle pagine di D’Arrigo, precisamente nel paesaggio vespertino, si trova con “ l’alzarsi della fumèa”. Possiamo perfino fissare la memoria sull’incipit indimenticabile del Piacere: “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepore velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel cielo di Roma”. D’Arrigo: “Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quarto di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio […]”. Il discorso non sarebbe ordito in quest’ ultimo caso se non si trattasse di un luogo 3 privilegiato del testo, punto di innesto: l’“incipit”. Luogo privilegiato in cui la predisposizione a ricomporre, ad accostare o fondere il materiale verbale induce lo scrittore ad appropriarsi di materiale preesistente per combinare un intarsio a tasselli.
Quello che colpisce il lettore è soprattutto il linguaggio che, a volte popolare, a volte reinventato del tutto con l’ausilio di altre lingue del passato e del presente, assume una peculiare rilevanza insieme alla tecnica narrativa che ricava la sua linfa proprio da esso. L’autore aggiunge ogni frase alle altre arricchendola, dilatandola all’orizzonte per sottolineare ogni singolo passaggio, anche il più intuitivo. Confrontiamo l’espansione, basata su un sistema binario o reduplicativo, nell’episodio in cui si narra l’afflizione delle femminote per i ferribò perduti durante la guerra: “A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò, direttamente su loro, sulle navi, e si misero a sospirarci come fossero state le loro grandi, comode, preziose case e la guerra gliele avesse distrutte […] A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò spariti, persi: e doveva fatalmente cadere sui ferribò, perché era per quello, per la perdita di tutto quello, che si trovavano ridotte a quel punto, straviate terraterra. Case e locande e botteghe e negozi e piazze e mercati e treni e chiatte e transatlantici, insomma l’arcalamecca […] Questo, era tutto questo e tutto quello, era tutta la loro arcalamecca, che avevano perso coi ferribò, e di quella forse per la millesima volta, s’erano messe a parlare: si trovavano nella polvere e si ricordavano del tempo in cui stavano in trono. Il discorso scese, scese, scavò, scavò, riaprì la piaga sinché, anche questo era fatale, dal discorso a conversario che era parlare accademico del più e del meno, sconfinò al tribolo, al parlare a singhiozzo, con scatti di voce oppure silenzi, gridi oppure sospiri”.
Horcynus Orca, romanzo singolare e di grande valore, proponibile anche didatticamente, si inserisce maestosamente nella storia della letteratura italiana del Novecento non soltanto per le novità dello sperimentalismo linguistico e per la forza emotiva che coinvolge il lettore trasferendolo nel mondo a cui D’Arrigo ha dato vita, ma anche per le entusiastiche recensioni tributategli da letterati, critici e studiosi fin dalla sua prima pubblicazione.
Sperimentazione e ricerche, esigenze compositive, nuovi gusti, orientamenti, ereditati dal dibattito precedente, sono presenti in vario modo nella prima metà degli anni Settanta; ci troviamo di fronte a quella produzione avanguardistica e sperimentale contrassegnata dal suo impegno di trasgressività, dal rifiuto dei valori estetici tradizionali, dall’interesse per la ricerca e la verifica dei mezzi di linguaggio. Ed è proprio in tale contesto che trova la sua naturale collocazione l’Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo, un romanzo che, a quasi trent’anni dalla pubblicazione, spentisi i commenti e le polemiche a caldo, risulta inconfondibile e durevole, un esempio unico ma non imitabile.
Stefano D’Arrigo (1919-1992) nato ad Alì Marina (Messina), nei primi anni Cinquanta manifesta i primi intenti di un’opera di ampio respiro: una sorta di “epos” mediterraneo costruito su una radicale rielaborazione della lingua italiana e sulla reinvenzione di un nuovo lessico letterario supportato da forme dialettali dell’area costiera siciliana tra lo stretto di Messina e l’estrema diramazione della Calabria.
Nel 1959 una giuria composta da Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Carlo Bo, Cesare Zavattini e LucianoAnceschi premia alcune pagine inedite di D’Arrigo e annuncia alla società letteraria che un autore, quasi sconosciuto, sta scrivendo un’opera innovativa con dedizione assoluta. Di ciò si ha conferma nel 1960, quando sulla prestigiosa rivista «Il Menabò» diretta da Vittorini, escono con il titolo I giorni della fera cento pagine di un “work in progress”, che è Horcynus Orca, pubblicato poi - come si è detto - nel 1975.
Nell’opera, di milletrecento pagine, divisa in tre parti e in quarantanove episodi, D’Arrigo narra il ritorno dalla guerra di ‘Ndrja Cambrìa, nocchiero della fu Regia Marina italiana. Gli episodi del romanzo, ricchi di particolari, si snodano dopo il tragico armistizio dell’8 settembre, lungo l’arco temporale di sette giorni a partire da sabato 4 ottobre 1943.
Uscito illeso dalla guerra, Ndrja, raggiunte le spiagge della Calabria, disseminate di resti e rovine, va alla ricerca di una imbarcazione per attraversare lo Stretto e tornare finalmente nel suo paese dal nome mitico, Cariddi, che sorge sulla costa siciliana orientale, quasi davanti alle rive calabresi di Scilla.
Egli, prendendo le distanze da una realtà vile e degradata, vuole riprendere il vecchio mestiere di pescatore e iniziare la propria vita dal punto in cui è stato costretto ad interromperla per andare in guerra. Pur avendo le autorità alleate vietato a chiunque di navigare nello Stretto, riesce tuttavia a farsi trasportare di notte dalla barca di una contrabbandiera della comunità matriarcale delle “femminote”, la misteriosa Ciccina Circé, il cui nome come quelli di Scidda e Cariddi, richiama simbolicamente il mito di Ulisse. Ben presto, però, ‘Ndrja si rende conto con amarezza del cambiamento del suo dolce paese Cariddi, sconvolto dalle turpi lotte per la sopravvivenza e minacciato da una tragedia imminente per l’apparizione dell’ “orcaferone” che “nuota” nello Stretto, già infestato dalle fere, delfini famelici che distruggono le reti dei pescatori, e fa “carneficina”.
Attraversando le correnti fra Jonio e Tirreno, i “duemari”, l’animale Horcynus Orca assurge a referente simbolico della guerra che ha reso mostruosi luoghi e uomini. Così l’irruzione dell’orca, mostro canceroso che dà morte, si fa presto allarmante premonitrice del destino mortale di ‘Ndrja, che è anche il destino di sconfitta degli uomini. E, quando le fere la scodano riducendola a pezzi, l’orca che dà la morte si manifesta come la vita stessa che reca con sé la morte, perfino pronta a risorgere ma ancora e sempre perdente. “Era l’orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola”. E ancora più avanti: “Lei è l’orca orcinusa, l’orca che ammazza, ammazza e basta, e lei ammazza”. Dalla narrazione spicca un senso di vita e di morte che le astrazioni non riescono a suscitare ma che solo le immagini esprimono con mirabile efficacia. Altrettanto imponente si presenta la scena in cui Masino si vuole accertare della morte dell’orcaferone: “Andò di coda all’immensa orcagna, che la sua piccolezza faceva apparire più immensa, occhiò sul montone, risalì l’orcagna per la fiancata sinistra tutta 2 squarci, profondi e brandelli, arrivò al quarto davanti allargando un poco e per spronarlo, se era morto, se era vivo, spruzzò una manata d’acqua contro la testa dell’animalone; poi come niente fosse, si avvicinò ancora di più, gli andò vicino, quasi con la faccia sull’occhio, come per vedergli la pupilla sotto la palpebrona”.
Nel romanzo l’orcaferone si carica di un alone di terrore, diviene pestifera testimonianza di un ordine superiore delle cose che, scardinato l’equilibrio, diverrà ben presto oggetto dell’amara dissacrazione, la stessa che ha tramutato i marinai di Cariddi in ombre del loro passato. L’equilibrio vita-morte si è spezzato per la prevaricazione di quest’ultima e dunque fra l’angoscia esistente e il disordine della natura si inserisce un divario che solo la morte può saldare. Ecco perché la barca, che alla fine del libro trasporta il cadavere di ‘Ndrja verso la madrepatria, sigilla il cerchio semantico del rapporto fra arcano e arcaico: l’arca che diventa la bara-barca, e l’Orca (-Orco, animale micidiale), portatrice dell’angoscia arcana dell’uomo di fronte alle barriere invalicabili del mondo. A contatto con la realtà del dopoguerra, il giovane ‘Ndrja, educatosi ad una vita deputata ad essere sconfitta dalla morte, comprende che non si muore soltanto in guerra, ma si può spesso morire anche in tempo di pace, travolti dai sistemi cosiddetti civili: si può morire di corruzione, di sofferenze, di miseria morale, poiché in questo mondo occidentale in crisi non c’è più salvezza, non c’è più la possibilità di imparare il mestiere di vivere. Non a caso la morte tante volte evocata prima, durante e dopo la guerra sarà inflitta al giovane da una sentinella dei liberatori, mentre sta navigando verso la linea dei due mari: “’Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante fiancata della portaerei, e fu come porgesse volontariamente la fronte alla pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre ”.
Il “nostos”di ‘Ndrja verso la sua terra si dispiega su uno scenario di una patria divisa in due in seguito all’armistizio dell’8 settembre ’43, e dilaniata da un caos orrendo: le città e i paesi ridotti a larve, a un’immane terra devastata, una terra di nessuno. Una luce, offuscata dai lutti, rischiara i superstiti non del tutto consci di essere vivi e per questo più straziati nell’anima e nel corpo. Ma tuttavia bisognava risorgere, bisognava ricostruire l’esistenza nel crudele espandersi del “bellum omnium contra omnes”: questa era la coraggiosa sfida che partiva dal paese della morte.
Quello di ’Ndrja è un “nostos” incerto e vago, sovrastato dalle ombre della notte e dal passato. Percorrendo tutta la costa tirrenica, da Napoli fino al paese delle “femmine”,il protagonista assiste a scene orribili, incontra figure nelle quali appare condensato tutto il dolore: le fiere femminote; l’infelice Cata, tratta inconsapevolmente dal suo Ade, accostata per la sua dolcezza all’Euridice di Rilke; la madre e la sorella di Sasà Liconti; Ciccina Circé, la madremaga che lo traghetterà verso il suo paese su quel mare che nessuno poteva solcare. E sono queste donne, le Madri-Spose, superstiti figure ctonie, che vagano e vivono fra le rovine come se attendessero qualcosa in grado di riscattarle e piantano gli occhi in faccia alla morte con superbia vitale e sacrilega, traendo nel contempo la forza di sopravvivenza anche nel dominio della morte. Tutti soffrono, ma ognuno per se stesso, ognuno è come prigioniero del proprio dolore, ed è come se l’eroe “patiens”, attraversando questa terra desolata, abbracciasse i dolori di tutti facendoli propri, unendo le loro memorie offese e rabbiose alle proprie. Il tramonto del sole e l’incipiente notte senza luna, all’inizio del romanzo, fanno risaltare gradatamente la sconfortante devastazione e gli scempi, che appaiono come “ la vendetta della natura” per la violenza che le ha arrecato lo spirito, per averla plasmata a sua immagine e somiglianza.
Molti studiosi hanno indagato la scrittura di D’Arrigo ponendo l’accento sulle sue linee stilistiche fondamentali e, anche se hanno individuato nel testo prolissità e manierismi e una tecnica costante di allitterazioni, omoteleuti, duplicazioni, ripetizioni di parole chiave, tuttavia hanno riconosciuto il respiro epico eccezionale e la straordinarietà dell’opera.
Da una lettura immediata si possono cogliere echi di opere di autori illustri, all’unanimità vi si riconoscono Faulkner, Joyce, Dante, Melville, Omero, perfino Frugoni, Francesco Colonna, Céline. Sono visibili significativi rimandi ipertestuali al canto XXVI dell’“Inferno” di Dante: “Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / e la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin ch’il mar fu sopra noi richiuso”. L’ultimo verso pronunciato da Ulisse “Infin che il mar fu sopra noi richiuso” trova risonanza nelle ultime parole del romanzo: “là dove il mare è mare”. Dall’esame attento del lessico, alcuni indizi lasciano trasparire la presenza di D’Annunzio: “Nella fumèa del vespro, intorno a Roma/ erano ovunque […]; Tra la fumèa rossastra/ alberi / (da Elettra ), nelle pagine di D’Arrigo, precisamente nel paesaggio vespertino, si trova con “ l’alzarsi della fumèa”. Possiamo perfino fissare la memoria sull’incipit indimenticabile del Piacere: “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepore velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel cielo di Roma”. D’Arrigo: “Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quarto di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio […]”. Il discorso non sarebbe ordito in quest’ ultimo caso se non si trattasse di un luogo 3 privilegiato del testo, punto di innesto: l’“incipit”. Luogo privilegiato in cui la predisposizione a ricomporre, ad accostare o fondere il materiale verbale induce lo scrittore ad appropriarsi di materiale preesistente per combinare un intarsio a tasselli.
Quello che colpisce il lettore è soprattutto il linguaggio che, a volte popolare, a volte reinventato del tutto con l’ausilio di altre lingue del passato e del presente, assume una peculiare rilevanza insieme alla tecnica narrativa che ricava la sua linfa proprio da esso. L’autore aggiunge ogni frase alle altre arricchendola, dilatandola all’orizzonte per sottolineare ogni singolo passaggio, anche il più intuitivo. Confrontiamo l’espansione, basata su un sistema binario o reduplicativo, nell’episodio in cui si narra l’afflizione delle femminote per i ferribò perduti durante la guerra: “A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò, direttamente su loro, sulle navi, e si misero a sospirarci come fossero state le loro grandi, comode, preziose case e la guerra gliele avesse distrutte […] A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò spariti, persi: e doveva fatalmente cadere sui ferribò, perché era per quello, per la perdita di tutto quello, che si trovavano ridotte a quel punto, straviate terraterra. Case e locande e botteghe e negozi e piazze e mercati e treni e chiatte e transatlantici, insomma l’arcalamecca […] Questo, era tutto questo e tutto quello, era tutta la loro arcalamecca, che avevano perso coi ferribò, e di quella forse per la millesima volta, s’erano messe a parlare: si trovavano nella polvere e si ricordavano del tempo in cui stavano in trono. Il discorso scese, scese, scavò, scavò, riaprì la piaga sinché, anche questo era fatale, dal discorso a conversario che era parlare accademico del più e del meno, sconfinò al tribolo, al parlare a singhiozzo, con scatti di voce oppure silenzi, gridi oppure sospiri”.
Horcynus Orca, romanzo singolare e di grande valore, proponibile anche didatticamente, si inserisce maestosamente nella storia della letteratura italiana del Novecento non soltanto per le novità dello sperimentalismo linguistico e per la forza emotiva che coinvolge il lettore trasferendolo nel mondo a cui D’Arrigo ha dato vita, ma anche per le entusiastiche recensioni tributategli da letterati, critici e studiosi fin dalla sua prima pubblicazione.
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Orcinus orca |
- Su Stefano D'Arrigo ed il suo Horcynus Orca, si vedano anche: Horcynus Orca: un libro esuberante, crudele e viscerale; Il quarantennale di Horcynus Orca; Horcynus Orca su Italialibri.
- Sommario analitico di Horcynus Orca (scaricabile).