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Tuesday, 26 January 2016

UNA VITA INTENSA E MOVIMENTATA

Bruno Zanin, il “Titta” di Amarcord

Articolo di ANDREA SCERESINI


Se gli chiedi della sua vita,lui ti sorride. Si frega le grosse mani coperte di calli e indica la finestra: Sono un eremita peccatore, sussurra. La sua casa è una vecchia baita ristrutturata, in pietra e legno, con un grande orto traboccante di verdure. Lo ha dissodato lui stesso, a colpi di vanga e piccone, e ne va giustamente fiero.  "Il grande guaio sono le lumache – annuncia con la sua leggera cadenza  veneta –, sono la mia maledizione, si mangiano tutto."

Siamo in Valle Anzasca, ai piedi del Monte Rosa. Il paese si chiama Vanzone con San Carlo e conta poco piu di quattrocento abitanti: una chiesetta, la piazza del municipio, la farmacia, il bar con i vecchietti che bevono rosso. Nella foresta risuonano i richiami dei boscaioli. A est, oltre i costoni verdissimi, le sponde del Lago Maggiore. A nord, la Svizzera. Lui è Bruno Zanin, classe 1951, ex attore, ex reporter di guerra, ex attivista umanitario. Il suo volto ha fatto la storia del cinema italiano. Era il 1973 quando Federico Fellini lo scelse per interpretare il ruolo di Titta, il suo alter ego dalla zazzera bionda, protagonista dell’immortale Amarcord, che due anni piu tardi si sarebbe aggiudicato il premio Oscar come migliore film straniero. Zanin – che prima di allora non aveva mai recitato neppure in uno spettacolino scolastico – si ritrovò improvvisamente proiettato nell’olimpo dorato della settima arte.

A Cinecittà ci era entrato per puro caso, accompagnando il figlio di un’amica.  "Fanno il casting per un film western – gli avevano detto –. Danno ventimila lire al giorno, perche non provi a farti prendere?" Lui, che a ventuno anni viveva di piccoli espedienti, da autentico figlio dei fiori, decise di tentare la fortuna.  "Gironzolando tra un capannone e l’altro, giunsi di fronte al Teatro Cinque – racconta lui scuotendo la testa –. C’erano una cinquantina di ragazzi in fila con i genitori. Chiesi cosa stessero facendo, e questi mi risposero: Ma come, non lo sa? Federico Fellini sta selezionando gli attori per il suo nuovo film. Si entrava soltanto dietro chiamata, ma a un certo punto fu gridato un nome, Tiberi Daniele, e nessuno si fece avanti. Decisi di alzare la mano, e fu cosi che fui ammesso alla presenza del Maestro. Gli raccontai ovviamente una marea di balle. Dissi che avevo diciassette anni, ma soprattutto sorvolai elegantemente su vari problemucci che avevo con la giustizia. C’era una diffida prefettizia nei miei confronti, e in teoria non avrei potuto neanche trovarmi a Roma. Ovviamente feci lo gnorri. Fellini fu subito entusiasta del mio volto: Ehi tu, capellone – tuonò –, vieni avanti sotto la luce, che ti voglio vedere meglio. Eravamo a meta gennaio. Di lì a pochi giorni girammo il primo ciak, e per me fu incredibile, perché improvvisamente mi ritrovai attorniato da un esercito di costumisti, parrucchieri, truccatori, fotografi e cronisti: ero diventato una star, di quelle che si vedevano sui giornali illustrati. Venni poi a sapere che i candidati al ruolo di Titta erano in tutto cinquemila: a pensarci non ci si crede. Ci sono storie che sembrano uscite dalle pagine di un romanzo, o forse, semplicemente, sono la prova del fatto che il caso non esiste."

Bruno Zanin è nato a Vigonovo, tra Padova e Venezia, lungo le rive del Brenta. È il quinto di sei fratelli, e i suoi genitori – che sono poveri e analfabeti – si guadagnano da vivere lavorando nei campi. Lo spediscono a studiare dai Salesiani, prima a Novi Ligure e poi a Canelli, ma è una vita che non fa per lui. Il collegio lo opprime, la famiglia non lo capisce. Solo contro tutti – come un giovane eroe di Francois Truffaut – Bruno fa “i quattrocento colpi” nell’Italia provinciale del boom economico. Scappa di casa, finisce due volte al carcere minorile e una all’ospedale psichiatrico. A quindici anni lo danno per suicida nelle acque del Brenta. Lui invece è vivo e vegeto: ha attraversato l’Italia fino alla Sicilia, dove si è spacciato per il rampollo di una casata padovana e ha trovato ospitalità in casa di un professore universitario.

"La bravata piu incredibile la combinai ad Amsterdam – sorride accarezzandosi la barba –. Cercai di imbarcarmi su un aereo dell'Air France travestito da chierico, spacciandomi per il nipote dell’arcivescovo di Lione che era morto due giorni prima all'età di novant’anni. Dissi che mi avevano rubato sia il biglietto sia i documenti, e quelli stavano persino per cascarci. Ovviamente la polizia la prese malissimo: altro che chierico! Ero appena evaso dal riformatorio di Venezia." Nel 1972 Bruno Zanin finisce a Lipari. Si fa chiamare Cristiano e per mantenersi vende collanine, monili e orecchini. Qui conosce Lea, una quarantenne figlia dei fiori con otto figli, che gli chiede in prestito centomila lire. Poi Lea se ne torna a Roma, i soldi non vengono più restituiti, e Bruno decide di andarseli a riprendere. Così arriva nella capitale, ed è proprio Lea, chiedendogli di accompagnare uno dei suoi ragazzi, a metterlo sulla strada di Cinecittà.

"Fellini era molto bravo a raccontare bugie – ridacchia Zanin –. Un giorno giocò uno scherzo tremendo a un giornalista che voleva a tutti i costi intervistarlo. Per levarselo di torno lo invitò a pranzo in un ristorante fuori Roma, molto lontano dal set: Ditegli di aspettarmi laggiù, ordinò alle segretarie. Lui ovviamente andò a mangiare da un’altra parte. Le riprese durano cinque mesi, fino al giugno del 1973. Bruno si scopre attore, e la cosa gli riesce incredibilmente bene.  Quello lì è nato per recitare, ripete il regista parlando con i reporter. La lavorazione procede non senza intoppi. Bruno – che alla fine ha dovuto confessare i suoi vari impicci con la legge – è guardato a vista dai responsabili della produzione, che temono da parte sua chissà quali mattane. D’un tratto inizia a ingrassare, e certo non poteva essere altrimenti perché, dopo anni di fame e bighellonaggio, due pasti completi al giorno si fanno subito sentire. Finisce che lo spediscono in palestra, e a lui chiaramente non resta che obbedire.  "Ricordo la scena del transatlantico Rex, che fu ricostruito in studio con plastica e cartapesta – sussurra l’ex attore –. Poi ci fu la famosa sequenza della tabaccaia, che in realtà era una camiciaia di Bologna: con la scusa di mostrarmi come dovevo fare, Federico prendeva il mio posto e si buttava con la faccia tra quelle tettone. Il ciak più duro fu la scena in cui muore la madre di Titta. Quel giorno ero particolarmente allegro, e la cosa evidentemente non andava. Fellini agì a modo suo: mi fece avvicinare e mi tirò un sonoro schiaffo, facendomi salire le lacrime agli occhi. Così girammo la scena, e fu subito perfetta. Federico aveva un estro particolare, era fatto in questo modo. Il nostro incontro ha avuto un effetto devastante su di me: da allora la mia vita è radicalmente cambiata."


Dopo Amarcord, per la prima volta in vita sua, Bruno può godersi un po’ di benessere:  "Fu un toccasana – dice –, o forse qualcosa di più. A dirla tutta, mi parve il giusto risarcimento dopo tanti anni di miseria. Per prima cosa comprai una barca di quattordici metri con due motori. Fu una sciocchezza, e infatti non vidi l’ora di liberarmene. Restava il fatto simbolico: da vagabondo a celebrità, nel giro di pochi giorni. Guadagnavo un milione di lire alla settimana, oggi sarebbe come dire mille euro al giorno." Stregato dal demone della recitazione, l’ex ragazzaccio di Vigonovo decide di fare sul serio. Comincia col teatro, ed è Luca Ronconi, nel 1974, a farlo esordire in due commedie goldoniane: “La putta onorata” e “La buona moglie”. Nel 1975 Giorgio Strehler in persona lo convoca al “Piccolo Teatro” di Milano, dove viene strutturato per “Il Campiello”. Lo spettacolo fa il giro d’Europa, e Bruno ovviamente ne è entusiasta. A Parigi viene notato da Jean Louis Barrault, che lo convince a recitare in francese al Theatre de la Ville in due commedie di Eugene Ionesco, il grande commediografo romeno: Jacques ou la soumission e L’avenir est dans les oeufs.

Nel corso della sua lunga carriera, Bruno Zanin prende parte a diciotto film, otto sceneggiati televisivi e almeno sei tournee teatrali. Lavora con registi del calibro di Marco Tullio Giordana, Giuliano Montaldo e Lina Wertmuller. Nel 1985 recita il ruolo del poeta Dino Campana in “Inganni” di Luigi Faccini. Due anni dopo è tra i protagonisti di uno tra i più costosi e futuristici sceneggiati Rai di tutti i tempi, “L’isola del tesoro” di Antonio Margheriti. E ancora, recita a fianco di Gian Maria Volonté ne “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara, e nella fiction “Marco Polo” del 1982. Con Fellini resta in buoni rapporti:  "Caro Brunaccio – gli scrive il regista nel 1985 –, vedrai che un po’ per volta la tua facciaccia riuscirà a imporsi, sempre che tu continui a fare del cinema. Ma anche se cosi non fosse, tu ti sei già esibito con successo a teatro e soprattutto riesci a interpretare tanti ruoli nella vita, e questa cosa mi sembra la più importante". Ma quella dell’attore è una vita strana, fatta di grandi finzioni, esaltanti successi e deprimenti sconfitte.  "Io sono nato contadino – sorride Bruno –. Semplicemente, mi sentivo un eterno impostore, alla continua rincorsa di qualcosa di effimero e sfuggente: il successo. All’inizio degli anni Novanta, dopo un ventennio sotto i riflettori, ho deciso che era l’ora di smettere. Il cinema non faceva più per me, era l’ora di esplorare nuove dimensioni."

Nel giugno del 1991, per la prima volta dai tempi della battaglia di Berlino, il rombo dei cannoni torna a risuonare entro i confini dell'Europa: l’esercito jugoslavo attacca la Slovenia, che ha appena proclamato l’indipendenza. Nel giro di pochi mesi il conflitto si allargherà a macchia d’olio, coinvolgendo anche la Croazia e la Bosnia ed Erzegovina.  "Nel 1992 vidi in televisione un servizio sui Balcani – racconta Zanin –. Passavano al telegiornale scene raccapriccianti, che in genere si vedono soltanto nei film: bombardamenti, violenze, villaggi bruciati, gente cacciata dalla propria terra, fughe di massa di donne, uomini e bambini. Decisi così, su due piedi e senza tanto pensarci, di andare a vedere cosa stava succedendo. Ancora non potevo immaginarlo: era l’inizio di una nuova avventura, che sarebbe durata addirittura tre anni." Sulle prime l’ex attore si reinventa giornalista. Scrive un pezzo bellissimo sul Corriere della Sera, la storia di Heinz, un mercenario tedesco che combatte con i croati di Bosnia e si atteggia a piccolo Rambo: morirà suicida sparandosi un colpo in testa al tavolino di un bar. I reportage firmati da Zanin finiscono su Der Spiegel, Famiglia Cristiana, Radio vaticana. Ma la sua vera vocazione, in fondo, e di tutt’altra natura:  "Si era risvegliato l’idealismo e tutto il romanticismo che da bambino aveva animato il mio cuore – racconta –. L’ideale cioé di fare il samaritano. Avevo la sensazione di aver ritrovato un cammino perduto, perduto per una colpevole distrazione, e di essere lì lì per reimpossessarmi della mia parte piu autentica e genuina."

La sua base operativa è Gradačac, nel cantone di Tuzla, una piccola enclave bosniaca circondata dalle armate serbe. Per lunghi mesi vive sulla propria pelle i bombardamenti, le sparatorie, gli scontri a fuoco. Comincia a collaborare con la “ONG Emmaus International” dell’Abbé Pierre, di cui diventa responsabile locale. Guida convogli umanitari, distribuisce viveri, cibo, medicinali. È un’esperienza meravigliosa e distruttiva allo stesso tempo. Quando finalmente torna in Italia, nel 1995, il vecchio Titta dagli occhi azzurri cade in uno stato di profonda depressione: lo chiamano disturbo post-traumatico da stress. Per curarlo, si ritira in un vecchio maniero a Castel di Tora, sul lago di Turano, dove d’un tratto comincia a dedicarsi alla scrittura.  "Me lo avevano suggerito in tanti – sorride Zanin –. La prima fu forse Elsa Morante che, dopo essermi divorato L’isola di Arturo, avevo letteralmente tempestato di lettere. Poi ci fu il poeta GiovanniComisso, che avevo conosciuto un giorno lontano e al quale avevo fatto leggere certi miei versi un po’ sgrammaticati. Insista, mi avevano detto. Si applichi, non molli il colpo. Per me è una specie di terapia: scrivo per esorcizzare i demoni della mia esistenza". Il suo primo libro si intitola Nessuno dovrà saperlo (Tullio Pironti Editore) ed esce nel 2006, dopo circa dieci anni di gestazione: e la storia, in larga parte autobiografica, di una infanzia tormentata dalle violenze e dai soprusi.  "Questo è un libro di espiazione e di redenzione – ha scritto Raffaele La Capria –. È il libro di un’anima ferita e di una coscienza incapace di perdonarsi."

Se sali a Vanzone con San Carlo, in Valle Anzasca, lui ti verrà incontro sulla piazza del paese. Avrà le mani grosse e scorticate di chi passa le giornate maneggiando la vanga. Ti accompagnerà fin sulla soglia della baita, in fondo a uno stretto vialetto erboso. Dentro è quasi tutto in legno. Ci sono le sue foto di gioventù, appese agli infissi e alle travi. Ci sono cumuli di libri, dai saggi sulla guerra in Siria al Placido Don di Michail Aleksandrovic Šolochov. Ci sono quadri, appunti e disegni.  "Rimango quassù dalla primavera all’autunno, finché non comincia a fare freddo – dice lui –. Poi non ha piu' senso, perché arriva la neve e il gelo. Allora me ne scendo verso il Sud. Percorro la Sicilia a piedi, spostandomi da una fattoria all’altra. Chiedo vitto e alloggio, e in cambio do una mano con la zappa. Ho fatto il Cammino di Santiago, sia quello francese sia la Via de la Plata. Dopo anni di corse folli, flash e riflettori, ho riscoperto il valore eterno della lentezza. I miei turbamenti continuano a perseguitarmi, e forse non la smetteranno mai. Sto imparando a conviverci. In fondo si sa: il vero equilibrio arriva soltanto dopo la morte." La vita del resto gli ha donato molte cose: un immenso bagaglio di esperienza, due figli – avuti con una fotografa francese, Monique – che oggi sono grandi e vivono Oltralpe e, ancora, una grande pletora di amici sparsi in tutto il mondo, ma soprattutto quel fortunatissimo ruolo – il biondo Titta – che lo ha proiettato per sempre nell’Olimpo del cinema italiano.

"Mi invitano ancora a un sacco di festival – sorride –. Lo hanno fatto anche a Locarno, qualche anno fa. Io ho detto di no: mi sembra assurdo dover essere ricordato per ciò che ho fatto quattro decenni fa. Quel ragazzo non esiste più, e cercarlo ancora dentro di me è come chiedere a un vecchietto di fare le capriole su un prato. Son cose che non si fanno, punto e stop. È una questione di pudore: per questo cerco di evitare. Ho vissuto molte vite, una diversa dall’altra, e non sempre è stato un bel vivere. Oggi se volete conoscermi dovete leggere i miei libri, quello che ho pubblicato e gli altri in attesa di editore. Ne ho ben quattro nel cassetto, ma il mio problema è che non mi so vendere, non mi piace bussare alle porte. Così me ne resto quassù, in questa mia prigione piena di vecchi ricordi, tra le patate, le cipolle e le zucchine. Perché in fondo, credetemi, non è per niente male". Il sole tramonta lentamente, oltre il massiccio severo del Monte Rosa. I grilli borbottano in mezzo ai prati, mentre laggiù, in fondo alla gola, rumoreggiano le acque del ruscello. L'aria è fresca, la pace assoluta. Forse, chissà, ha veramente ragione lui.

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Il libro di formazione di Zanin, Nessuno dovrà saperlo (Pironti, 2006/Rist. 2015),  è disponibile per l'acquisto presso l'autore su Facebook aBruno Zanin o richiedendolo per email a brunozanin(a)msn.com 





Per leggere un'introduzione di Raffaele La Capria al libro La casa del vento di Bruno Zanin, clicca qui.






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  • AMARCORD di Fellini (1973), su YouTube. Zanin ha la sua prima esperienza di attore, nella parte di Titta.

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