Fotogramma da 81/2 di Fellini |
~ Dico la verità, e la verità non è mai chiara, mentre le menzogne sono rapidamente capite da tutti. [I tell the truth, and the truth is never clear, while lies are quickly understood by everyone]. (Federico Fellini).
''Quid est veritas?" Che cosa è la verità (Τί ἐστιν ἀλήθεια)? chiede Ponzio Pilato nel Vangelo di Giovanni. Da qui allora inizia (ma i greci già avevano sondato), perdurando nei secoli, una lunghissima discussione filosofica, che gli esperti hanno da tempo sviluppato semanticamente ed epistemologicamente. Commentando un recente libro di Diego Marconi sul tema, Gianluca Miligi nel parla nel suo articolo Verità e relativismo:
Tra i numerosi testi nei cui titoli e argomenti figura il termine ‘verità’, ne abbiamo scelto uno, recente, di Diego Marconi in quanto offre, a differenza di molti altri, un serio e circostanziato contributo alla riflessione: Per la verità. Relativismo e filosofia (Einaudi 2007). Caratterizzato da un’inconsueta chiarezza concettuale ed espositiva, fin dall’inizio, expressis verbis, viene dichiarato il suo “semplice” obiettivo: non una nuova teoria della verità né una confutazione del relativismo bensì «mettere un po’ d’ordine, richiamando distinzioni e argomentazioni ben note, ma forse non proprio a tutti; e comunque, a quanto pare, spesso dimenticate». E non sarà obiettivo di poco conto e di facile conseguimento. Va ricordato che il libro nasce da una rielaborazione ed estensione delle Lezioni veneziane tenute per il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle scienze dell’Università di Venezia nel 2006. Scopo del presente scritto è svolgere una ricognizione, parziale, attraverso il libro e intorno alle questioni che vi sono messe in luce.
Marconi inquadra l’analisi del concetto di ‘verità’ entro quella che definisce “intuizione realista”, una cui semplice ed efficace sintesi rinviene in un passo di B. Stroud: «Il mondo intorno a noi, su cui diciamo di avere conoscenze, esiste ed è come è del tutto indipendentemente dal fatto che sappiamo o crediamo che sia così […]». Si può sostenere, secondo l’Autore, che ogni asserzione che riguardi il mondo è o vera (se le cose stanno come l’asserzione dice che stanno) o falsa (se non stanno così), tesi che corrisponderebbe alla concezione sostenuta da Aristotele in Metafisica Γ 7 1011b, per cui «Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso» e dire il contrario, vero. A partire da qui si esplicita subito un principio saldo e “ generalmente accettato”: «È vero che P se e soltanto se P» (T). Questa, come noto, è la definizione, nucleare o minimale, della verità proposta dal logico polacco Alfred Tarski; la sua nota esemplificazione è la seguente: «“La neve è bianca” [“P”] è un enunciato vero se e soltanto se la neve è bianca [P]»1 . L’intento tarskiano è costruire «una definizione materialmente adeguata e formalmente corretta del termine “enunciato vero” (wahre Aussage)» (in Tarski, Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati 2 , 1933-35): in altri termini, è in questione la predicabilità del ‘vero’.
Procediamo gradualmente: Marconi innanzi tutto puntualizza in una nota che «Tarski parlava di enunciati, non di proposizioni (una proposizione è ciò che un enunciato esprime); e diceva che il nucleo delle nostre intuizioni sulla verità è espresso dai bicondizionali nella forma x è vero se e soltanto se P, dove x è il nome di un enunciato e p è la sua traduzione nel metalinguaggio in cui parliamo dell’enunciato in questione». Due gli elementi importanti: 1) la distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio (su cui brevemente ritorneremo) e 2) l’uso del ‘bicondizionale’ o ‘doppio condizionale’, se e solo se (<->), formula che, aggiungiamo, esprime anche la nozione di condizione necessaria e sufficiente: se l’antecedente è condizione sufficiente del conseguente, questo sarà condizione necessaria del primo 3.
Qualche ulteriore precisazione ci pare opportuna per rendere più chiari i caratteri di quel principio tenuto fermo dall’Autore. Tarski elabora una definizione semantica della verità, tale - come egli stesso dichiara - in quanto tratta le connessioni tra le espressioni di una lingua, gli enunciati, e gli oggetti e stati di cose cui tali espressioni si riferiscono. Una concezione referenzialista, ndata cioè sul riferimento: infatti “la verità di un enunciato consiste nel suo accordo con la realtà”, effettiva, fattuale (The Semantic Conception of Truth, 1944): essa si differenzia ad esempio dalla definizione coerentista della verità, quest’ultima consistendo appunto nella coerenza formale di un sistema di proposizioni, la quale, diversamente, si esplica sul piano sintattico. Al riguardo c’è però chi, come Dummett, ritiene importante stabilire quanto segue: «sebbene Tarski chiami la sua definizione “concezione semantica della verità”, egli tralascia proprio di fornire un resoconto dell’uso del termine “vero” nella teoria semantica» (M. Dummett, Verità e passato, 2007). Il filosofo inglese quindi distingue una semantica incentrata sul significato - o senso (Sinn), in termini fregheani - del termine “vero” e la teoria tarskiana, che invece rinviene lo statuto della verità in relazione alla denotazione (o ‘riferimento’, Bedeutung).
La concezione di Tarski è in ogni caso una dichiarata rielaborazione, come evidenziato dall’Autore, della teoria di Aristotele, rielaborazione che ha il preciso intento di darne una maggiore correttezza formale. Siamo nel quadro dell’idea di verità come corrispondenza, come adeguatezza: la verità, per il suo carattere referenziale, ha un fondamento ontico. Nell’analisi di Marconi, comprensibilmente, non vengono invece discusse la configurazione e la struttura formale logico-linguistica della verità, per cui sembra che la verità stessa non possa essere negata senza incorrere in contraddizione: il giudizio in cui si nega deve infatti essere “vero”: la verità appare “inaggirabile” o, in termini più stringenti, “trascendentale” (ma qui si apre soltanto un complicato intreccio di problemi e aporie che in questa sede è impossibile seguire). Tale presunta struttura non dice comunque nulla circa l’effettiva esistenza della verità e del criterio per distinguere il vero dal falso, che è precisamente l’oggetto principale del libro.
Ma torniamo sulle analogie e le differenze tra Aristotele e Tarski. Della teoria minimalista della verità del logico polacco, per chiara scelta dell’Autore, è stata data solo un’inquadratura “in campo lungo”, e per vari motivi: la natura parzialmente “divulgativa” del libro, il fatto d’averne proposto altrove più approfondita trattazione, la messa a tema di un ampio numero di questioni, con riflessi anche in campo morale. Ma il tema della verità come ‘corrispondenza’, così come declinata da Tarski, merita però una rapida messa a fuoco. La teoria aristotelica e quelle che ad essa si rifanno direttamente (1) comportano due tesi: “Un enunciato vero è un enunciato che dice che le cose stanno così e così, e le cose stanno così e così” (Aristotele) e “La verità di un enunciato consiste nel suo accordo con (o corrispondenza a) la realtà”: centrale, come detto, è il riferimento a “qualcosa” di estraneo al linguaggio: possiamo dire che si dà identità del contenuto espresso in una proposizione con quello conosciuto dell’oggetto di cui si parla. Nel quadro tarskiano (2) invece “x è un enunciato vero se e solo se p” in cui x è nome individuale di un enunciato (dimensione del significante, “nome da virgolette” o, in terminologia logica medioevale, suppositio materialis) e p è l’enunciato in un linguaggio di livello superiore e inclusivo (dimensione del significato, suppositio formalis).
In gioco qui vi sarebbe l’equivalenza tra l’essere vero di un enunciato preso nel suo aspetto sensibile-significante e l’enunciato stesso preso nel suo significato: essa si pone anzitutto nell’àmbito del linguaggio, senza riferimento a “qualcosa” estraneo ad esso (semantica): «può trattarsi di un universo di discorso costruito, anziché di realtà del mondo dell’esperienza”. Nel passaggio da 1) a 2) quindi si determina il “passaggio dal piano contenutistico della concezione classica e aristotelica del vero (1) a quello linguistico proprio della semantica (2)» (v. Rivetti Barbò, L’Antinomia del mentitore, pp. 177-8.) e alla distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio.
A prescindere dalle precedenti considerazioni, l’assunto tranchant di Marconi, si noti, è che se si parla di verità non se ne può parlare che in termini conformi al principio (T), altrimenti “non si sta parlando di verità, ma di qualcos’altro”. In generale, nella prospettiva assunta, un enunciato è vero solo se è fondato in uno stato di cose (ta pragmata): la verità ha in sostanza uno statuto eteronomo. È lo stesso Marconi che esplicita in modo riduzionistico, sulla base della citata intuizione realista, il quadro ontologico che dà senso al concetto di verità proposto: «La verità non abita un regno sublime, più elevato dell’umile dominio dei fatti». Affermare, stricto sensu, P è insieme affermare implicitamente che ‘è vero che P’. Subito si aggiunge che vale anche il converso, cioè una sorta di una coimplicazione: «Se affermiamo che le cose stanno in un certo modo, con ciò stesso [corsivo nostro] affermiamo che è vero che stanno in quel modo». Accertare un fatto, uno stato di cose, è accertare che l’enunciato che lo afferma è vero, e viceversa; “se P allora vero che ‘P’, vero che ‘P’ allora P”, secondo il ‘principio logico di equivalenza’. Sussisterebbe in base ad esso una simmetria tra le due tesi, che talvolta sono considerate espressioni, rispettivamente, del ‘principio di riflessione’ e del ‘principio di completezza’. Secondo Lukasiewicz essi sarebbero già stati implicitamente formulati da Aristotele nel De interpretatione: «[Riflessione] Se è vero dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso sarà [è] necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, [completezza] se un oggetto è bianco, oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa» (De int. 18 a 39-b2). In altri termini, e analogamente, i princìpi in questione si caratterizzano come a) ascesa (se P, allora P vero) e discesa (se P vero, allora P) semantica.
Altrove lo stesso Marconi ha sottolineato una differenza tra la tesi di equivalenza e il bicondizionale tarskiano (T) osservando che in (T) il linguaggio di “P” è diverso dal linguaggio di P. Dobbiamo comunque rilevare quella che, a nostro giudizio, rispetto a (T) risulta essere un’evidente e strutturale asimmetria: è vero che P se e solo se sussiste lo stato di cose P, il quale perciò si rivela condizione “assoluta” della verità della proposizione P. Tale connotazione ontica è l’elemento fondante, per cui da P dipende la potenziale verità dell’enunciato “P”: connessa e complicata questione è come si possa stabilire P: questione che rimanda al versante gnoseologico, relativo al giudizio costruttivo o, kantianamente, giudizio sintetico a priori, mediante cui viene, appunto, determinato P (in quanto P).
Abbiamo ricostruito le questioni evocate dalle prime, comunque decisive, pagine del libro di Marconi; a ciò va però aggiunto qualche generico rilievo: (1) quella discussa, come detto, non è l’unica possibile definizione della ‘verità’; (2) questa stessa definizione ha bisogno di uno sviluppo (dal quale potrebbero emergere forti aporie); ma (3) certamente, in quanto è una definizione, rappresenta un positivo tentativo di delimitare un solido terreno solido teorico su cui svolgere l’analisi del rapporto tra relativismo e filosofia essa indaga una dimensione del vero, che abbiamo voluto definire “ontica”, nella quale è possibile distinguere ciò che è vero e ciò che è falso; infine, in via complementare, (4) contribuisce a far emergere irrinunciabili distinzioni logicosemantiche riguardo termini e concetti fondamentali. Il linguaggio è cosa assai complessa ma proprio per questo un controllo rigoroso della terminologia è il primo, importante, stadio di un’analisi che voglia essere veramente filosofica.
Tra ‘verità’ e ‘giustificazione’
La prima importante distinzione, sul presupposto che “l’intuizione realista sia attendibile”, cade tra il “dire che una certa asserzione è vera” e il dire che è giustificata, cioè che “ci sono delle ragioni per pensare che sia vera”: distinzione tra verità e giustificazione o, sarebbe meglio, “giustificatezza”. Ciò implica che vi siano innumerevoli asserzioni vere ma non giustificate e “ancora più numerose” proposizioni vere ma non asserite da nessuno e, conseguentemente, non giustificate: molte di queste probabilmente non saranno peraltro mai asserite. Marconi considera il concetto di “indovinare” per spiegare come si possa fare una affermazione vera per caso, un’asserzione fattuale senza alcuna giustificazione: se, guardando da fuori un certo edificio, si afferma che al suo interno vivono 325 persone e in effetti, da dati anagrafici, risulta esattamente questo il numero di condomini, l’asserzione è vera, ma tale solo per puro caso, ovvero, a fortiori, senza alcuna giustificazione.
Ma bisogna procedere oltre perché, se la distinzione tra verità e giustificatezza ha un suo plausibilissimo senso, non univoco è il senso dell’‘essere ‘giustificato’. Infatti, se il ‘vero’ ha una sua possibile definizione (è quanto ha cercato di stabilire l’Autore fin dall’inizio), alla parola ‘giustificato’ si possono attribuire almeno tre sensi diversi.
In un primo senso, vago e generico, si può dire che un’asserzione è giustificata «per intendere che è argomentata, cioè non presentata come un dogma ma è sostenuta da un ragionamento basato su premesse» (giustificato¹). In un secondo senso, più specifico e frequentemente usato, si dice che «un’asserzione è giustificata² per intendere che è derivata in modo convincente da premesse plausibili»: Marconi, con alcuni esempi, richiama giustamente l’attenzione sul fatto che vi sono teorie e asserzioni che possono essere giustificate² e tuttavia false: il caso forse più evidente è quello della teoria tolemaica del moto dei pianeti che “aveva dalla sua una miriade di osservazioni astronomiche e di calcoli raffinati e corretti”. Nel terzo senso-uso di ‘giustificazione’ viene a priori esclusa la possibilità che un’asserzione sia insieme giustificata e falsa in quanto - ecco il punto forte dell’argomentazione, una tesi che rappresenta un Leitmotiv: «Il concetto di giustificazione³ presuppone esplicitamente il concetto di verità […] la verità della proposizione giustificata è condizione necessaria [corsivo nostro] per essere una giustificazione». La medesima posizione viene espressa, ad esempio, da Pascal Engel, il quale afferma che «Non si può sostenere che “vero” e “giustificato” vogliano dire la stessa cosa, perché “giustificato” presuppone la nozione stessa di verità» (P. Engel R. Rorty, A che serve la verità?, 2007 4 ).
In questo ultimo senso, ribadisce Marconi, un’autentica giustificazione non può non comportare, incorporare, la verità delle proposizioni giustificate, e in ciò sarebbe analoga ad una ‘dimostrazione’: potremmo suggerire, se ciò non rischiasse di generare equivoci, di usare al posto del termine giustificazione³ quello più semplice e chiaro verificazione (a prescindere dalla specificazione del criterio o fondamento della verificazione stessa). La tesi dell’Autore si differenzia, come egli stesso spiega, da quella avanzata da B. Williams, secondo cui una credenza è giustificata se c’è ragione per ritenere che sia vera. Anche qui il concetto di ‘giustificazione’ implica quello di verità, ma la differenza è decisiva poiché la seconda assume pur sempre che un’asserzione possa essere giustificata senza essere vera: ci può essere ragione di pensare che P sia vera, anche se non lo è.
In sintesi, per Marconi una proposizione giustificata¹ e giustificata² può anche essere falsa, mentre una proposizione giustificata³ (=“verificata”) è necessariamente vera: P è giustificata³ -> P è vera. Ma su cosa si appuntano principalmente le utili argomentazioni confutative dell’Autore? Sul difetto o aporia della circolarità: il concetto stesso di ‘giustificazione’ non può non supporre implicitamente quello di verità, in quanto, se vuole avere un senso, non può escludere quest’ultimo, dal momento che, usando altre categorie e terminologia, non esisterebbero nemmeno giustificazioni ma solo una molteplicità di mere opinioni. In riferimento alle opportune distinzioni semantiche richiamate, l’Autore procederà a vagliare una serie di tesi-discorsi pregiudicati da un incontrollato uso terminologico e da confusione concettuale: il rischio generale è sempre quello, per dirla con Salvemini, di rendere la filosofia una “fabbrica del buio”.
Ritornando a Williams, anche nella sua concezione - così schematizzabile: P è giustificata -> c’è ragione di ritenere che P sia vera - si annidano aporie: se basta “ritenere che”, allora non è necessario che debba essere vera. E, comunque, evidentemente in questa formulazione si presuppone ancora il concetto di ‘verità’: quindi, se s’intende usarla per definire la verità, si incorre sempre nel difetto della circolarità. In ultima analisi, per Marconi, con cui siamo d’accordo, non è possibile in nessun modo definire la verità – e nemmeno sostituirne il concetto - ricorrendo al concetto di giustificazione: viene così escluso «quello che si usa chiamare un concetto epistemico di verità».
All’interno di questo discorso sono innestate altre, determinanti, nozioni: da una parte ‘verità’, ma dall’altra ‘credenza’, ‘opinione’ e ‘conoscenza’, che da quelle di distingue, e che, sulla scorta del platonico Menone, può essere definita in termini di “credenza vera giustificata”. Lo spettro che grava da sempre su qualsiasi fondazione gnoseologica è quello dello scetticismo, cui l’Autore dedica giustamente attenzione. Per contrastarlo ancora un’altra distinzione è necessario difendere: la verità è diversa dalla certezza, non può mai coincidere con essa. Il cuore dello scetticismo, come viene affermato, è «nell’idea che nessuna giustificazione è tale se non è dimostrabilmente capace di resistere a ogni obiezione possibile». Ma da ciò non può conseguire che, considerato che in linea di principio non esistono credenze certe non rivedibili - in futuro, nel progresso della conoscenza -, allora non sono possibili vere giustificazioni, ossia conoscenze. L’insostenibilità di questa tesi scettica si palesa sulla base di una puntuale chiarificazione teorica: «Se una credenza è giustificata, abbiamo ragione di ritenerla vera [‘giustificata’]: questa ragione non viene meno – ovviamente – per il fatto che la credenza può essere falsa». Questo non vale ovviamente per le asserzioni analitiche, quelle che asseriscono verità logiche, ad esempio “Se P, allora P” o “Nessuno scapolo è sposato”, la cui verità dipende dal significato delle parole, nel senso che il concettodefinizione di “scapolo” è costituito dal predicato ‘non-sposato’ (si tratta di un giudizio analitico, essenzialmente tautologico). Ma nel campo delle scienze naturali? Si può sostenere una credenza giustificata, una conoscenza, la quale è vera…“fino a prova contraria”: questo il perno su cui ruota l’argomentazione di Marconi.
Egli passa poi a criticare poi la cosiddetta “drammatizzazione della verità” proposta da alcuni filosofi (è uno dei suoi bersagli), ossia l’idea che la verità sia per noi, per l’uomo, inaccessibile. In concreto, una delle ragioni di questo “fenomeno” è l’esiziale confusione (ancora!) tra conoscenza e certezza, che «si insinua anche in chi ha ben chiara la distinzione tra verità e certezza [supra], e quindi sa perfettamente che la mancanza di certezza non implica l’assenza di verità»: la verità di una proposizione è indipendente dalla soggettiva certezza che sia vera.
Si potrebbe dire, in altre parole, che questa tesi di Marconi è un “presupposto riflesso” necessario per mantenere un senso al termine-concetto di verità. Intorno a cui, viene precisato: «Non credo che la verità sia “il modo in cui le cose stanno”: piuttosto, è vera una proposizione che dice che le cose stanno nel modo in cui stanno». Nel primo caso, infatti, la verità coinciderebbe con la realtà effettiva, con l’effettiva sussistenza di uno stato di cose, e non sarebbe altro che un diverso nome di questa. La verità, quindi, sembra piuttosto essere qualcosa che emerge o si dà (si verifica?) nel linguaggio secondo determinate condizioni iscritte nel rapporto con l’altro dal linguaggio (il ‘vero’ si traduce come predicato).
Altra ragione della drammatizzazione per la presunta inaccessibilità della verità, dipende dal fatto che il discorso intorno ad essa concerne spesso questioni (metafisiche) religiose ed etiche, come l’esistenza di Dio, la natura del Bene o la società giusta. Ma per questo non si è autorizzati ad estendere l’inaccessibilità alla verità tout court, la quale invece mantiene uno spazio, a certe condizioni, di rigorosa decidibilità.
Dimensioni del relativismo
Del concetto di “relativismo”, che è l’altro protagonista del libro di Marconi, è stato fatto un vero e proprio abuso, in primis da chi lo intende contrastarlo sotto la bandiera, esposta o meno, del dogmatismo religioso e ideologico, ma anche da chi lo sostiene acriticamente, senza averne data preliminare e imprescindibile delucidazione teorica. Insomma, la scena, filosofica e non, è ormai contesa tra agguerriti predicatori in nome del Vero e postmodernisti relativisti, che credono che la ‘verità’ sia ormai parola vuota. E su questo dissestato, fumoso e deprimente terreno di scontro che interviene l’analisi accorta e “sobria” dell’Autore, contrappuntata costantemente da molti utili esempi.
La principale e condivisibile preoccupazione, nel prosieguo dell’analisi, sarà allora di differenziare le tante accezioni del concetto di ‘relativismo’. Andando al cuore della questione: la forma di relativismo che, comprensibilmente, coinvolge di più Marconi e che egli dichiara come “meno banale” delle altre, è quella concernente i criteri di verità: seguendo la prospettiva di Foucault, i princìpi in base ai quali qualcosa viene ritenuto vero possono essere, o sono di fatto, diversi da X tra Y.
Per far ordine tra le diverse dimensioni del relativismo, bisogna procedere a distinguere il relativismo epistemico dal relativismo della verità. Il primo, che si potrebbe anche qualificare lato sensu relativismo conoscitivo e che sarebbe la forma più diffusa, sostiene che non esistono dei metacriteri per giudicare la superiorità o inferiorità di un criterio di verità rispetto agli altri. Ma il punto importante, ben sottolineato da Marconi, è che per il relativista epistemico non ci sarebbero «modi per giustificare un criterio di verità che siano indipendenti dal criterio che vogliono giustificare: sicché ogni giustificazione di un sistema di giustificazione è destinata ad essere circolare e perciò inaccettabile»; è nuovamente l’irresolubile aporia della circolarità che si profila in primo piano. Quindi, escluso un metacriterio veritativo, le motivazioni di scelta di un criterio sono di natura extrarazionale. Ma, come si diceva, altro è il relativismo epistemico, che identifica verità e giustificazione, altro quello concernente la verità medesima (che pure possono essere considerati erroneamente consequenziali). Perché? Si faccia attenzione: dire che la proposizione A è vera per X – ritenuta, considerata tale in base al criterio veritativo assunto da X - ma non per Y «non implica che A sia vera per X (ma non per Y)», a meno, appunto, di sostenere il relativismo epistemico. Dal riconoscimento della diversità dei criteri non si può concludere che la verità sia relativa, concetto peraltro apertamente autocontradditorio o autoconfutativo, poiché la verità verrebbe resa plurale, parziale (entrerebbe in un universo di differenze), quindi doxastica: ma, in ultima analisi, la verità non è, per imprescindibile presupposto (tutto da sviluppare, certo!), altro dalla doxa?
In un percorso di progressivo approfondimento dell’analisi, viene esplicitato proprio il senso della tesi “vero per X”, la quale però viene ridotta a banalità se la s’intende uguale a “secondo X”, “nell’opinione di X” (oppure “creduto vero da X”), rilevando il fatto che si crede a cose diverse: infatti è assolutamente evidente la molteplicità e irriducibilità delle opinioni. Marconi registra, comunque, il frequente intreccio tra relativismo epistemico e tesi della relatività della verità, che il primo sembra presupporre: ma in un concezione non epistemica della verità - che per l’Autore è integrata all’intuizione realista ma può anche, a nostro giudizio, non presupporla -, la verità stessa, riguardante le proposizioni che asseriscono o meno uno stato di cose, non può che essere, per principio, uguale per tutti, al di là delle opinioni. Se sviluppiamo questa linea di argomentazione, la verità risulta identica e non negabile poiché dipende da uno stato o determinazione del mondo, quindi da “ciò che non può essere altrimenti”, da ciò che, come fatto, è incontrovertibile.
Da un punto di vista logico-ontologico, la verità invece impone sé stessa in maniera elenctica (da elenchos), secondo il ritmo della ‘“iterazione riflessiva”, la quale si genera da una autoreferenzialità negativa: questa si determina p. e. in enunciati come “La verità non esiste”, (S) “S non è vero”: (si veda anche la regola logica della consequentia mirabilis: ‘Se non P allora P’).
Torniamo al nostro testo: Marconi sostiene che la pluralità degli schemi concettuali non implica la loro irriducibilità reciproca. La pluralità non si struttura secondo un mutua esclusione dei suoi elementi e quindi uno stato di cose può risultare accessibile da diversi schemi, tra i quali perciò può darsi “traduzione”. L’Autore vuole comunque assumere che si diano schemi concettuali assolutamente diversi: una proposizione può essere vera per (o in) uno schema concettuale A mentre in uno schema B può non essere vera o, in una formulazione variata e radicalizzata, falsa.
Questo tipo di relativismo è di natura concettuale e la sua versione più convincente, a giudizio di Marconi, è quella proposta da Ian Hacking per cui “Gli schemi concettuali determinano quali proposizioni possono essere vere o false”. Qual è la caratteristica che qualifica questo tipo relativismo, che è indipendente da quello epistemico? A differenza di quest’ultimo riguarda la verità, e consente di dar un senso forte alla formula “vero per X”, da cui si era partiti. Non concerne infatti le credenze o i criteri di giustificazione, ma l’ontologia: nel quadro di X o Y si determina «che tipi di cose ci sono e in quali relazioni possono stare». La premessa, decisamente plausibile ma del tutto generica, del relativismo concettuale è che il modo in cui stanno le cose è accessibile solo mediante una struttura concettuale (una variazione dell’assunto “Ogni fatto è già teoria”). Si fa l’esempio del greco antico che non poteva definire il sale come cloruro di sodio: non poteva accedere a questa verità proprio perché non disponeva dei concetti della chimica moderna. L’elemento discriminante è allora non lo statuto di verità di una proposizione ma la sua accessibilità: questa soltanto è relativa ad uno schema concettuale.
Heidegger e Rorty hanno analogamente sostenuto (il che sarebbe conseguenza di una simile concezione) che in un mondo in cui non vi fosse l’uomo o una mente non sarebbe vero che, p.e., vi sono in esso stelle o montagne: quindi non varrebbe la tesi corrispondentista tarskiana (T) (ricordiamo: “È vero che P se e soltanto se P”): «Infatti (T) implica che, in qualsiasi mondo, se ci sono montagne allora è vero che ci sono montagne». Inoltre, un dato importante è l’assunzione che gli statuti di verità non riguardano solo credenze e asserzioni ma anche le proposizioni, le quali non è detto siano (secondo l’impostazione “platonista” di Frege) dipendenti dalla mente. La critica deve allora in ogni caso appuntarsi contro la confusione (pericolo che sempre si ripropone!), in cui cadono pensatori come quelli sopra citati, tra la verità e l’accessibilità. Ciò significa che «in un mondo privo di menti niente e nessuno avrebbe accesso ad alcune verità, ma questo non vuol dire che niente sarebbe vero in quel mondo»: la verità rivela, in questo senso, il carattere dell’assolutezza.
Nel libro ci si inoltra poi nel terreno, particolarmente scivoloso, del relativismo in materia di valori e di morale, che tanto, e troppo vacuamente, occupa la scena nei dibattiti odierni, dall’etere alla carta. Di quel relativismo che non riguarda il “modo in cui le cose stanno”, bensì il modo in cui dovrebbero stare. Da un punto di vista teorico, esso viene a configurarsi a) in senso ermeneutico-postmodernista sulla scorta dello slogan (sic) nietzscheano “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”, quindi secondo una pura e semplice negazione; b) nel senso di una riduzione dei fatti a costrutti, artefatti interpretativi, nel quadro di “tradizioni concettuali del tutto contingenti”. Dipanando il filo delle aporie che tale relativismo genererebbe, Marconi cerca di segnare un primo punto fermo: che rispetto a qualsiasi schema-interpretazione ne esista uno alternativo – esistono infatti molteplici possibilità e alternative - non è un’obiezione risolutiva contro il concetto di “fatto” e l’esistenza dei fatti. Diverse sono le contro-obiezioni dell’Autore: rinunciare alla nozione di ‘fatto’ implica rinunciare agli enunciati dichiarativi, “ad asserire o argomentare alcunché”; in fondo, anche il filosofo postmoderno che intende escluderla in linea di principio, si trova poi costretto a farne uso (viene citato spesso Gianni Vattimo).
Il discorso sul relativismo è evidentemente connesso a quello del pluralismo. Innanzi tutto la pluralità – delle forme di vita, delle scelte etico-politiche, eccetera – è un fatto. Ma è un particolare atteggiamento nei confronti di questo dato che apre la prospettiva del pluralismo definito dei “Cento fiori” (da una frase pronunciata nel 1956 da Mao Zedong: “Che cento fiori fioriscano, che cento scuole gareggino”): la pluralità si presenta come un valore, un bene in sé. In questa particolare ottica pluralistica, da un lato, la pluralità 8 favorisce la possibilità di scelta e quindi di libertà; dall’altro, la dinamica in cui si esplica tende a far prevalere l’alternativa migliore. Ma l’ottimismo sotteso a tale concezione (si pensi solo ai distorti fenomeni del libero mercato) non è qualcosa di condivisibile e di traducibile teoricamente. L’unico argomento a favore di questo tipo di pluralismo (che è “alla base dei sistemi politici di democrazia liberale”), come dichiara Marconi, è di carattere negativo: non si può affermare la positività della pluralità, ma si deve tenere senz’altro ferma la negatività - il suo essere un male, un disvalore - della riduzione violenta della pluralità stessa (di cui purtroppo il secolo passato ha dato drammatici esempi). Il pluralismo dei “Cento fiori”, si evidenzia correttamente, “non è necessariamente relativistico”, in quanto non sostiene che forme di vita, ipotesi scientifiche, eccetera, siano oggettivamente equivalenti, che le alternative abbiano il medesimo valore.
Questa tesi è invece prerogativa del pluralismo dell’equivalenza, per il quale proprio l’introduzione di una discriminante di valore risulta infondata: le alternative non devono essere inquadrate in una gerarchia di migliore e peggiore: questo tipo di pluralismo, quindi, per usare la terminologia weberiana, ha un carattere ‘a-valutativo’. Ancora una volta l’Autore, con estrema chiarezza, riesce a condensare il nucleo della sua critica: la tesi dell’equivalenza «implica che non ci siano ragioni per preferire un’alternativa alle altre (se le ragioni ci fossero, le altre non sarebbero equivalenti): la scelta è determinata da cause [corsivo nostro], non sostenuta da ragioni».
Sempre nell’àmbito della questione valoriale o assiologica, Marconi rinviene un’analogia tra la concezione epistemica della verità – una proposizione è vera per X non per Y - e il soggettivismo: «Qualcosa è un valore se e soltanto se è riconosciuto come tale da noi, o da qualcuno». Individuiamo un’altra tesi interessante, ben chiarita dall’Autore: se il relativismo epistemico è poco plausibile poiché tutti distinguono, ancorché non dichiaratamente o “consapevolmente”, tra il modo in cui le cose stanno e la nostra opinione su di esso, nel caso dei valori una corrispondente distinzione - tra valore intrinseco di una cosa e opinione sul suo valore - non sembra sussistere: l’opinione coincide con l’istituzione di qualcosa come “valore”. Il soggettivismo poi, a certe condizioni, sfocia, naturalmente, nel nichilismo: non esistono i valori tout court, nemmeno i propri, «ma solo preferenze, determinate da una storia causale».
Su questo punto è bene che si insista poiché vi si palesa, riaffermandosi, la posizione di Marconi: egli in un certo senso postula un’“incontrovertibilità” ontica: il mondo, le cose che sono “là fuori” e il “modo in cui esse stanno” (viene usata spesso questa locuzione) sono ciò che “inopinabile” o incontrovertibile, in quanto indipendente da quel che ne possiamo pensare; «i valori, invece, non sono “là fuori” indipendentemente dal fatto che noi li attribuiamo (o, almeno, li riconosciamo) ».
Questo è in fondo il presupposto, intuitivo, che l’Autore ha poi cercato di “porre” (per usare una terminologia dialettica) o dimostrare attraverso la confutazione di tutte quelle teorie che lo mettono in discussione, o addirittura esplicitamente intendono escluderlo. Sull’“altra” e decisiva dimensione di incontrovertibilità, logico-sintattica - distintacomplementare a quella semantica, tarskiana, sviluppata da Marconi -, ma che da ultimo è schiettamente onto-logica, nulla si è detto in questa sede, se non per accenni: ma è nostra generale convinzione che uno dei fondamentali oggetti dell’analisi filosofica (da perseguire in contesto adeguato) debba essere proprio la complessa natura, “elenctica”, della Verità o dell’Essere, con la sua intrascendibile logica-sfondo in virtù della quale sembra resistere ad ogni paradosso o atto di negazione.___________
1. L’esempio di Tarski è “insidioso” poiché si riferisce ad un giudizio analitico: la ‘neve’ infatti, in quanto tale, è (“sempre”) di colore bianco; un caso diverso, che sembra meglio rispondere al significato della teoria tarskiana, è quello di un giudizio sintetico del tipo “Il cane è nero”, del quale bisogna vedere se sia possibile “predicare” la verità (“se e solo se” il cane è nero) o meno.
2. Sostiene Tarski che “P”, così come P, ha la forma richiesta dalle regole della logica per una definizione, precisamente la forma di una equivalenza logica: essa consta di due parti, il primo e il secondo membro dell'equivalenza, collegati dal connettivo “se e solo se”. Il primo membro è il definiendum, la frase il cui significato viene spiegato dalla definizione; il secondo membro è il definiens, la frase che fornisce la spiegazione. Il definiendum quindi è la seguente espressione: “La neve è bianca” è vera, mentre il definiens ha la forma: “la neve è bianca”.
3. L’”Implicazione materiale” o “Condizionale” (->) "se…allora" prevede un antecedente e un conseguente, tali che l’antecedente è condizione sufficiente ma non necessaria del conseguente. Può riguardare il significato delle parole, un nesso casuale o un’intenzione. L’implicazione materiale coglie soltanto un tratto generale del nesso condizionale, affermando semplicemente una connessione verofunzionale tra due proposizioni. Il condizionale è falso nel caso in cui il suo antecedente sia vero e il conseguente falso.
4. P. Engel e R. Rorty, A che serve la verità?, il Mulino, Bologna 2007; il libro trae origine da un’“animatissima” discussione” sul tema tra i due filosofi, tenuta nel 2002 al Collège de philosophie della Sorbona.
~Si veda anche: Karl Raimund Popper, La teoria oggettivistica della verità (De Luise, Farinetti, Lezioni di storia della filosofia © Zanichelli editore 2010)
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A passage from Francis Bacon's Essays or Counsels:
I. Of Truth.
WHAT is Truth? said jesting Pilate; and would not stay for an answer. Certainly there be that delight in giddiness, and count it a bondage to fix a belief; affecting free-will in thinking, as well as in acting. And though the sects of philosophers of that kind be gone, yet there remain certain discoursing wits which are of the same veins, though there be not so much blood in them as was in those of the ancients. But it is not only the difficulty and labour which men take in finding out of truth; nor again that when it is found it imposeth upon men's thoughts; that doth bring lies in favour; but a natural though corrupt love of the lie itself. One of the later school of the Grecians examineth the matter, and is at a stand to think what should be in it, that men should love lies, where neither they make for pleasure, as with poets, nor for advantage, as with the merchant; but for the lie's sake. But I cannot tell: this same truth is a naked and open day-light, that doth not shew the masks and mummeries and triumphs of the world, half so stately and daintily as candle-lights.Truth may perhaps come to the price of a pearl, that sheweth best by day; but it will not rise to the price of a diamond or carbuncle, that sheweth best in varied lights. A mixture of a lie doth ever add pleasure. Doth any man doubt, that if there were taken out of men's minds vain opinions, flattering hopes, false valuations, imaginations as one would, and the like, but it would leave the minds of a number of men poor shrunken things, full of melancholy and indisposition, and unpleasing to themselves? One of the Fathers, in great severity, called poesy vinum daemonum, because it filleth the imagination; and yet it is but with the shadow of a lie. But it is not the lie that passeth through the mind, but the lie that sinketh in and settleth in it, that doth the hurt; such as we spake of before. But howsoever these things are thus in men's depraved judgments and affections, yet truth, which only doth judge itself, teacheth that the Inquiry of truth, which is the love-making or wooing of it, the knowledge of truth, which is the presence of it, and the belief of truth, which is the enjoying of it, is the sovereign good of human nature. The first creature of God, in the works of the days, was the light of the sense; the last was the light of reason; and his sabbath work ever since, is the illumination of his Spirit. First he breathed light upon the face of the matter or chaos; then he breathed light into the face of man; and still he breatheth and inspireth light into the face of his chosen. The poet that beautified the sect that was otherwise inferior to the rest, saith yet excellently well: It is a pleasure to stand upon the shore, and to see ships tossed upon the sea; a pleasure to stand in the window of a castle, and to see a battle and the adventures thereof below: but no pleasure is comparable to the standing upon the vantage ground of Truth, (a hill not to be commanded, and where the air is always clear and serene,) and to see the errors, and wanderings, and mists, and tempests, in the vale below; so always that this prospect be with pity, and not with swelling or pride. Certainly, it is heaven upon earth, to have a man's mind move in charity, rest in providence, and turn upon the poles of truth. To pass from theological and philosophical truth, to the truth of civil business; it will be acknowledged even by those that practise it not, that clear and round dealing is the honour of man's nature; and that mixture of falsehood is like allay in coin of gold and silver, which may make the metal work the better, but it embaseth it. For these winding and crooked courses are the goings of the serpent; which goeth basely upon the belly, and not upon the feet. There is no vice that doth so cover a man with shame as to be found false and perfidious. And therefore Montaigne saith prettily, when he inquired the reason, why the word of the lie should be such a disgrace and such an odious charge? Saith he, If it be well weighed, to say that a man lieth, is as much to say, as that he is brave towards God and a coward towards men. For a lie faces God, and shrinks from man. Surely the wickedness of falsehood and breach of faith cannot possibly be so highly expressed, as in that it shall be the last peal to call the judgments of God upon the generations of men; it being foretold, that when Christ cometh, he shall not find faith upon the earth. [@ Bacon, Works VI, 377-379] |